Sono tutti anziani i morti in Italia di coronavirus. Per ora. Lo scrivono i giornali, lo ripetono gli esperti per cercare di arginare un altro virus ben più pericoloso e forse più contagioso: la psicosi. Ma può un concetto tanto aberrante rassicurare la popolazione ed esorcizzare le nostre paure? Perché sta passando l’idea che la morte di un anziano sia meno grave? Lo ha sottolineato con estrema dignità anche Vanessa Trevisan, la figlia di Adriano (insieme nella foto), il 77enne di Vo’ Euganeo morto venerdì scorso all’ospedale di Schiavonia. E’ passato alla cronaca come la vittima numero uno del coronavirus in Italia, ma per la famiglia Trevisan è una perdita incommensurabile. "Hanno detto "però era vecchio" – osserva la figlia in una intervista a Repubblica – come se la sua età dovesse attenuare il dolore che provo, come se la sua scomparsa fosse meno importante". E ha ragione lei: 77 anni non sono neanche una vita lunghissima. E’ vero, Adriano Trevisan era cardiopatico e già debilitato. Ma ciò non vuol dire che la fine della sua vita non fosse una fase importante e degna di essere vissuta a pieno come le altre. Equivale a non dare valore alle opportunità offerte da una malattia di lunga durata: il tempo di lasciare in ordine le proprie cose, condividere e rivivere ricordi, perdonare ed essere perdonati o semplicemente il tempo di guardarsi indietro con gratitudine piena. La morte di una persona anziana è spesso un evento accettato in modo naturale. Del resto, per molti di noi, la prima immagine della morte che si forma precocemente nell’infanzia è associata proprio alla vecchiaia, con la perdita di un nonno. Per la prima volta sperimentiamo una nuova, inevitabile dimensione della esistenza. Ma non vuol dire che quella morte valga di meno.

DANIELA LAURIA