Ma sì, tiriamo le somme. Le prime, anzi le primissime. Facciamo i conti, sono solo sottrazioni. Negatività in fila, una lunga teoria. I danni provocati dall’epidemia scritti in successione. Botte tremende sul capo dell’economia in Italia. Pubblicato il rapporto Svimez sull’impatto economico dell’emergenza. Se avete voglia e avendo cura di tenervi forte, ma forte assai a qualcosa di solido, questi soni i numeri del virus. Il Pil ridotto dell’8,4%. Il blocco delle attività produttive costa 46 miliardi di euro al mese.

Fermi circa due milioni e mezzo di lavoratori indipendenti, soprattutto al Nord. Persi 25,2 miliardi di fatturato. Gli effetti del lockdown risultano così ripartiti, nel rapporto Svimez: 37 miliardi al mese al Centro-Noprd, 10 al Sud. Dai numeri alla sollecitazione non rinviabile: completare il pacchetto di interventi per compensare gli effetti della crisi sui soggetti più deboli, lavoratori non tutelati, famiglie a rischio, povertà e micro imprese. Svimez calcola che il costo del lockdown corrisponde a 788 euro pro capite al mese nella media italiana, 952 euro al Centro-Nord a fronte di 473 al Sud. Proprio il Sud, nella fase di ripresa – se e quando ci sarà – rischia di accusare una maggiore debolezza rispetto al Centro-Nord, dovendo scontare inevitabilmente la precedente lunga crisi, prima recessiva poi di sostanziale stagnazione. Dalla quale il Sud non è mai riuscito a uscire del tutto. Tutto quanto in generale, ma nel particolare?

I ristoratori fanno i conti nello specifico. Ne conseguono denuncia, grido di dolore e un allarme che scuote e preoccupa un intero settore di vitale importanza nel panorama economico del Paese. Zero clienti causa la chiusura, le città blindate, gli italiani invitati a non uscire di casa. Sempre più buffo suona, di giorno in giorno, lo slogan "Andrà tutto bene". Ma, vivaddio, cos’altro deve ancora succedere dopo contagi, persone in rianimazione, i morti, e il blocco totale della produzione e dell’economia? È andato tutto male, come previsto. Ancora peggio per i ristoratori, zero clienti. E in soldoni?

Ventuno, sì 21 miliardi persi e 300mila aziende in ginocchio. Letteralmente prone, un ko totale. "Così è a rischio l’intera filiera enogastronomica", denuncia il presidente della Federazione pubblici esercizi, Lino Stoppani. Numeri pazzeschi, che spaventano e seminano prospettive nefaste. Davide Oldani, una stella Michelin, titolare del "D’O" di Cornaredo, Milano, una quarantina di dipendenti e una carriera in ascesa, fino al momento in cui il virus è esploso con la sua devastante micidiale aggressività. Ha pagato gli stipendi di marzo e richiesto la cassa integrazione per tutti.

"Dove lo Stato non arriverà, ci penserò io. Dopo sarà però tabula rasa, io artigiano a Cornaredo non farò più tavolate. Al massimo sei persone. La mia cucina sarà meno cerebrale. Non voglio che chi lavora con me ci perda". Federico D’Amato lavora per un ristorante di famiglia a Reggio Emilia, il "Caffè arti e mestieri". La sua brigata è composta di otto elementi. "Sono in cassa integrazione, noi titolari abbiamo chiesto i 600 euro stanziati dal Governo per gli autonomi. Al momento stringiamo i denti, ma siamo pure obbligati a chiederci cosa succederà dopo. Dovremo rientrare dei soldi persi e non potremo più proporre menu di degustazione. Dovremo tararci su piatti semplici". Il virus cambia anche il modo di mangiare al ristorante.

"Quando riapriremo saremo tutti indebitati, spero che la liquidità promessa dal Governo arrivi davvero, altrimenti il settore resterà al tappeto. La mia clientela era all’ottanta per cento straniera, sarà durissima. Ma io non cambierò la mia cucina", assicura con orgoglio misto a disperazione Antonio Ziantoni, titolare di "Zia" a Trastevere. Dovranno inventarsi tutti qualcosa, non solo lui. Ci stanno provando in due, Cosimo Mogavero del "Cirispaccio", bottega di prodotti campani a Milano, e Giuseppe Iannotti, neo stellato al "Kresios" di Telese Terme, Benevento. "Se davvero il futuro è uno Stato di polizia in cui bisogna misurare la febbre, non so se riapro", è il sommesso annuncio dello chef Iannotti.

In Campania, a oggi, è vietato anche il delivery, consentito in tutta Italia. Il titolare di "Kresios" ha aderito intanto all’iniziativa di Diming Bond. "I voucher: il cliente prenota oggi per venire a cenare a emergenza finita. Non lo faccio per soldi, ma per mantenere la vicinanza con i clienti. Il contatto vitale. Ne avrò venduti già una decina". Mogavero del "Cirispaccio" sforna ogni giorno parmigiane di melenzane e galletti al forno, consegna a domicilio. La moglie collabora con lui e anche due giovani per il delivery. "Nessun guadagno a stare aperti così, ma almeno non stiamo con le mani in mano. Aperti per le consegne, perdiamo l’ottanta per cento. Il dopo emergenza non lo riesco ad immaginare, spero che le persone premino i ristoranti che offrono la qualità. Ma non so se basterà a salvarci". Una voce, tante voci, il coro dolente dei ristoratori. La categoria dei conti pesantemente in rosso. Ventuno miliardi persi in meno di due mesi.

FRANCO ESPOSITO