Il ritiro di Bernie Sanders dalla corsa alla nomination democratica con il successo di Joe Biden ha un significato che supera il caso personale. E’ la fine, in questa stagione, del tentativo, generoso ed ostinato, del leader radicale di spostare l’asse del partito democratico a sinistra su posizioni che anche in passato non hanno mai portato alla Casa Bianca il partito dell’asinello. Sanders era riuscito a dare rappresentanza istituzionale all’onda di contestazione radicale affermatasi tra i giovani nell’ultimo ventennio contro il cosiddetto "establishment" democratico.

La sua politica, tipica del welfare socialdemocratico (sistema sanitario universale, aumento del reddito minimo, spese universitarie garantite), in realtà negli Stati Uniti rinverdiva un’antica vena populista della sinistra progressista riemersa in parallelo al nazional-populismo di destra di Trump. Con Biden il Partito Democratico presidenziale conferma il suo carattere di coalizione non-ideologica. Su suggerimento di Obama, il grande regista del successo di Biden, la coalizione elettorale emersa nelle primarie democratiche comprende una parte di classe media bianca suburbana, gli afroamericani e i latinos, la working class anche obsoleta del Midwest, i liberal e gli "urbani" con cultura e modi di vita non tradizionalisti. Ad oggi i sondaggi "nazionali" danno Biden avanti di diversi punti su Trump (circa 48-49% su 41-42%), ma il sistema elettorale è tale per cui il numero totale dei voti non è indicativo della vittoria di un candidato sull’altro, come insegna la vittoria di Trump nel 2016.

Quel che al dunque decide sono i voti dei singoli Stati nel "collegio elettorale", in particolare i risultati degli Stati che oscillano tra i due partiti. Questa volta inciderà a fondo la gestione della pandemia per le vite umane e l’economia. Trump come di consueto, oscilla tra prese di posizione contraddittorie. E’ difficile dire oggi ciò che accadrà fino al 3 novembre. Il problema di Biden è duplice. Deve affrontare in primo luogo i sanderisti. Il senatore ritiratosi ha dichiarato che sosterrà Biden (diversamente da quel che fece con Hillary Clinton) ma manterrà il proprio nome sulla scheda per i delegati alla Convenzione di Milwaukee (agosto). Cercherà così di pesare sui rapporti interni al partito, in particolare sulla "piattaforma elettorale".

In genere le "piattaforme" presidenziali sono generiche per attirare il maggior numero di elettori. Se in quella democratica 2020 saranno inserite proposte troppo radicali, potrebbe risultare ostica a una parte di elettori. La seconda questione è la scelta del candidato Vice che il nominato Biden dovrà indicare alla Convenzione. Questa volta è doppiamente importante per l’età del candidato presidente, quindi per un eventuale secondo termine. II vice influisce nel voto quale personalità complementare (territoriale, politica, di genere, d’età, di religione…) del candidato presidente, in grado cioè di attirare consensi al di là dell’orizzonte presidenziale.

Tra i candidati già in corsa potrebbero essere prescelti Elizabeth Warren, donna ma con l’handicap di essere troppo a sinistra, Pete Buttigieg, giovane brillante ma non apprezzato dagli afroamericani per l’omosessualità, la senatrice Amy Klobuchar, donna, moderata con l’endorsement del New York Times. O altri esponenti tra cui Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York, distintosi per l’energica azione sul virus.

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