Chissà se Matteo Salvini avrà pensato, rimuginato, per poi rimuovere immediatamente il dubbio devastante, anche di fronte all’ultimo sondaggio Ipsos di ieri mattina, l’ennesimo che conferma un calo piuttosto significativo: "Se non lo avessi fatto, quel maledetto Papeete, adesso sì, che sarei il dominus della situazione, il Viminale, l’emergenza, altro che Conte e Casalino, e gli italiani sarebbero con me". Perché l’impressione, fuori e anche dentro la Lega, è proprio questa: l’orologio politico e biologico di Salvini è fermo ad allora, un po’ come quello di Renzi al 4 dicembre, a un lutto ancora non elaborato, metabolizzato, superato. Rimozione che, in una fase di emergenza estrema, diventa spaesamento, incapacità di adattarsi alla realtà, coazione a ripetere, come quei fantasisti che fanno sempre la stessa finta, finché non trovano un difensore esperto che capisce subito come fermarli. "Apriamo tutto", quando il Governo chiude, "chiudiamo tutto" quando il Governo apre, anzi "non riapriamo tutto" mentre il Governo discute, "Draghi forse" anzi no, "usciamo dall’Euro".

Solo il solito schema, la solita finta, il solito passo, l’essere contro a prescindere, che poi è il modo migliore per non impensierire l’avversario. Formatosi sull’istinto, interprete della dittatura dell’istante, emotiva e non razionale, è un leader fuori contesto, nel momento in cui il virus ha infettato le sue certezze. Nella fase dell’irresistibile ascesa, Giancarlo Giorgetti lo chiamava la "gallina dalle uova d’oro", capace di trasformare in consenso tutto: gaffe, strafalcioni, incoerenze. Adesso che i sondaggi, settimana dopo settimana, certificano che la covata è meno generosa, Giorgetti ama ripetere che "prima o poi la campanella suonerà per tutti e finirà la ricreazione". La campanella è l’emergenza economica e sociale, l’inquietudine dei produttori, il dramma dei lavoratori che prima o poi romperà questo gioco di specchi del "populismo" fermo al 20 agosto: l’opposizione che sogna la spallata, il Governo che, come allora, cerca nell’inaffidabilità altrui il suo collante.

E che rischia, anch’esso, il suo personale Papeete virale, nell’illusione che la popolarità alle stelle del premier sia consenso politico e non, semplicemente, come accadde a Berlusconi a Onna, l’impulso di un paese a stringersi interno a chi guida, nel momento della disperazione. L’idea cioè che si possa sostituire la politica con la comunicazione, nel tentativo di dare corpo a ciò che corpo non ha, con la cessione di sovranità a una ridda di cabine di regia che, tutte assieme, sono meno efficienti della cara e vecchia Inail. La suggestione che basta il titolo "Cura Italia" a dare l’idea dei soldi stanziati, anche se la Cassa integrazione non arriva, che il titolo "Liquidità" faccia arrivare denari, anche se il decreto è un labirinto burocratico, o basti la parola "Aprile" a rendere operativo un decreto che forse arriva a maggio. In fondo, il populismo si nutre di quella che una volta, nell’era unopuntozero, i tanto vituperati partiti chiamavano propaganda. Per due anni almeno, a salvinismo imperante, le televisioni erano degli ansiogeni, che hanno trasformato l’immigrazione in una fobia collettiva, neanche ci fosse l’invasione degli Unni, inducendo il bisogno di un uomo d’ordine che fermava i barconi a favor di camera, tranne poi mettere i malcapitati a Rocca di Papa, tanto finito il tg chi se ne accorge.

Adesso la costruzione della leadership è nell’arte delle conferenze stampa nell’ora dei tg, con i "ci riabbracceremo presto", anche se siamo il primo paese ad aver chiuso e l’ultimo a riaprire ancora non si capisce come. Oppure nell’immagine, sempre la stessa, mandata in ogni servizio del Tg1, diventato troppo anche per il mite Zingaretti, del premier in camicia bianca, perfettamente stirata, che firma un qualcosa, per poi alzare lo sguardo verso l’orizzonte come Kennedy. È il populismo bellezza!, che rende le mitiche cassette che Berlusconi mandava ai tg roba da artigiani o quelle di Renzi che scendeva dall’aereo come Obama roba da ragazzini. Mai un discorso crudo, di verità al paese, sul fatto che saranno mesi di lacrime e sangue. Ecco, la realtà, il Pil, la recessione, il male del Nord presente nel grido di dolore del neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi, il suo "basta chiacchiere". Il virus ha mandato in crisi il salvinismo, il contismo non ancora proprio perché, al momento l’alternativa è inaffidabile, anche se la questione è squadernata se dentro il Pd qualcuno inizia a porsi la domanda: "Può essere questo il Governo che ricostruisce il paese?".

E c’è anche chi, a microfoni spenti, pensa che, se ci fossero le condizioni, la soluzione migliore sarebbe, prima della Finanziaria, tornare a votare col proporzionale, ipotesi altamente improbabile, ma che comunque segnala il problema. Non è dato sapere se e quando la campanella dell’emergenza suonerà, rendendo necessario un Governo che faccia finire la ricreazione. Per ora c’è da mettere agli atti la crisi di Salvini, tutta politica, nient’affatto banale. Strategica, si sarebbe detto una volta. E anche all’insegna del più classico paradosso. Perché mentre Salvini si è perso nella grancassa nazionalista, ossessionato dalla competizione con la Meloni, proprio sul terreno della pandemia è riemersa, prepotente, la constituency della Lega nord. Il profondo nord, operoso e produttivo, quello che telefonava a Giorgetti a palazzo Chigi per risolvere i problemi, quello che adesso si affida al pragmatismo di Zaia, quelli che "se ci fermiamo noi si ferma l’Italia" e hanno trovato una rappresentanza politica più aggressiva nel nuovo corso di Confindustria: è un mondo che ha condizionato i tempi dell’emergenza e ora pretende protagonismo nella ricostruzione.

È tutto qui lo spaesamento di Salvini, lost in translation, costretto a passare da "chiudiamo tutto" ad "apriamo tutto", quando a febbraio andavano di moda gli aperitivi a Milano, per poi tornare al "chiudiamo tutto" quando la Lombardia chiedeva la "zona rossa", ma sempre ca va san dire, pretendendo "chiarezza, chiarezza, chiarezza" dal Governo nazionale. Certo, se fosse stato ancora al Viminale, sarebbe stato tutto più facile. E invece si trova in una morsa del diavolo, consapevole che l’unica vera alternativa a questo Governo non è lui perché finché c’è lui il Governo ha il suo collante, ma l’alternativa è un’ipotesi che rischia di seppellirlo per sempre. Perché quel che sostiene Giorgetti, il Governo Draghi, a questo punto non nasce da una scelta della politica, ma dal suo default, da una situazione di emergenza che travolge tutto: Governo, opposizione, e populismo di Governo e di opposizione.