L’avventura privata di Alitalia è terminata. Cinque amministratori delegati, quattro commissari, due bad companies, 1,6 miliardi di "prestiti ponte" e otto tentativi di vendita si concludono nella nazionalizzazione. Venduto come una necessità strategica, il salvataggio pubblico è un atto politico. Alitalia, non è, come ha detto la ministra De Micheli, "uno strumento di attrazione trasportistica internazionale delle persone per farle tornare in Italia", qualunque cosa ciò voglia dire. I dati parlano chiaro: Alitalia ha una quota di mercato risibile e in caduta; malgrado ciò i turisti in Italia sono aumentati del 50%. La rinascita dalle ceneri delle varie LAI, CAI e SAI obbedisce a logiche di palazzo più che a dettami economici. Ma, data l’ingenza dell’investimento statale, è nel nostro interesse che la nuova Alitalia riesca a vincere le sfide che l’attendono; in questo articolo cercherò di esporre i principali problemi che la compagnia pubblica dovrà affrontare.

UN PASSATO IMPRODUTTIVO

La buona notizia è che, per la prima volta, Alitalia inizia con un capitale adeguato, tre miliardi di euro; quella meno positiva è che, almeno in tempi recenti, la compagnia ha accumulato solo ingenti perdite, bruciando quasi un miliardo e mezzo a livello di EBITDA. Confrontare la performance di Alitalia con altri vettori è difficile a causa della scarsità di dati emessi dalla compagnia, specialmente per quanto riguarda due misure-chiave per capirne il funzionamento: CASK e RASK, di cui sono disponibili solo i valori del 2017. Il primo acronimo significa Cost per Available Seat/Km e indica il costo sostenuto per far volare un sedile per un km; il secondo, invece, guarda al lato vendite. Revenue per Available Seat/Km è l’ammontare ottenuto dal far volare un passeggero per un km. Di sotto si vede un raffronto tra Alitalia e alcune compagnie europee: Aer Lingus e Iberia sono due legacy di dimensioni comparabili, mentre Vueling e EasyJet sono competitori sui mercati a corto raggio.

È palese un problema: Alitalia ha guadagni da low cost che fa voli a corto raggio e costi da legacy che segue un modello "hub & spoke". Continuare il paragone sul lato costi è difficile, perché oltre alla scarsità di dati si aggiungono diversi metodi contabili; comunque è possibile fare un raffronto per macro-aree, da cui si nota che i costi per carburante e personale di Alitalia sono grossomodo simile a quello delle due major e alla media IATA. In altre parole, c’è margine di miglioramento in quella miriade di voci di spesa che includono manutenzione, infrastrutture, IT, sales e via dicendo. Una precisazione: anche ipotizzando di ridurre i costi in maniera spropositata, portandoli magari a livello di Aer Lingus, Alitalia rimarrebbe comunque in perdita o, nel migliore dei casi, a malapena profittevole. Perché qui si trova il secondo – e secondo me cruciale - problema della compagnia.

UN DECENNIO DI STRATEGIE SBAGLIATE

L’Alitalia dei "Capitani coraggiosi" nasce dalle ceneri del progetto che la vedeva basata a Malpensa. È interessante pensare a cosa sarebbe successo con Linate chiuso e Alitalia parte di un gruppo con KLM, ma la storia insegna che la nuova Compagnia Aerea Italiana ripartì col Piano Fenice, centrato sul mercato nazionale e, in particolar modo, sulla navetta Roma-Milano, con i risultati che abbiamo visto. Errare humanum est, sed perseverare diabolicum: in più di un decennio Alitalia non è riuscita a far altro che riproporre alternative del piano Fenice. Cambiano i dirigenti sul palco e le soubrette che dirigono la claque, ma la realtà rimane la stessa: tre hub (MXP, LIN, FCO) e maggioranza dei passeggeri su voli nazionali, in competizione con le low cost e l’Alta Velocità. Con l’eccezione di SAS – che viene da anni di risultati asfittici – nessun’altra compagnia legacy europea ha una strategia simile.

UNA CONGIUNTURA SFAVOREVOLE

Non c’è mai un buon momento per aprire una nuova compagnia aerea, ma questo è di sicuro uno dei peggiori. La pandemia Covid-19 finirà, ma ha avuto l’effetto di precipitare una crisi le cui avvisaglie si vedevano da un po’. Il settore è cresciuto tanto (persino troppo: i posti disponibili sono cresciuti del triplo rispetto al PIL pro-capite mondiale), e lo shock della pandemia ha gelato il mercato del trasporto aereo. IATA prevede un ritorno ai livelli del 2019 solo nel 2023. Lanciarsi nel momento in cui tutti tirano i remi in barca sarà molto difficile.

UN NUOVO PIANO

Alitalia ha bisogno di un nuovo piano di azione. La compagnia ha bisogno di rivedere i suoi costi e – soprattutto - la sua strategia. Tre hub per una compagnia con cento aerei e RASK a 6 centesimi sono due di troppo; il resto d’Europa insegna che, per sopravvivere e crescere, serve creare un hub singolo, su cui attrarre traffico in transito, abbandonando delusioni di grandeur e cercando, invece, i profitti. Alitalia dovrebbe accentrarsi su Fiumicino e creare una compagnia in cui long e mid haul pesano per circa metà dei passeggeri, con una quota rilevante di transiti, come fanno Aer Lingus a Dublino e Iberia a Madrid. Solo così si potranno abbattere i CASK e incrementare RASK. Ma per far ciò occorre indipendenza, autonomia: cose che l’Alitalia pubblica non avrà. Strattonata dalle esigenze politiche, ridotta a fiche elettorale, è facile pensare che la compagnia aerea pubblica continuerà sulla strada attuale. Ed è altrettanto facile prevedere che, di qui a qualche anno, ci troveremo ancora a parlare di "crisi Alitalia".

Fabrizio Soggetto