Ogni tanto dovremmo dirci la verità e prendere atto della realtà. Un tempo era colpa degli Albanesi, poi fu colpa dell’Est Europa, poi della Cina. Adesso va di moda che sia colpa dell’Europa. E siamo talmente assuefatti alla nostra abitudine di dare colpe ad altri e cercare nemici esterni, che non ci rendiamo conto che il nemico ce lo abbiamo in casa e spesso siamo noi. Il quinto Paese più industrializzato al mondo, che ha la sua vocazione economico-sociale nell'export e nelle relazioni internazionali, ormai è un Paese chiuso su se stesso, che delega la programmazione e la decisione sulle sue politiche industriali ai primi Di Maio e Patuanelli del caso, laddove servirebbe qualcuno decisamente proporzionato al ruolo cui è chiamato.

Persi tra decine di comitati tecnico-scientifici che dovrebbero dare la rotta a chi è invece pagato per governare con la propria competenza la nave, inventiamo Stati generali dell'economia, affinché escano delle idee per risollevare il Paese. E lo facciamo dopo che per anni abbiamo allontanato, talvolta cacciato a malo modo, le migliori menti di questo Paese. E ci ritroviamo con governi fatti non di politici, ma di influencer, privi di elettori, ma con groupies e fan, privi di competenze e di idee di lungo periodo, abili solo alla battuta efficace del momento acchiappa like e cuoricini, in cui le stanze della programmazione sono sostituite da dirette Facebook.

Ecco, ce lo meritiamo. E caduto l'alibi della coperta corta e della mancanza di fondi, quando il "nemico Europa" rischia di sommergerci di miliardi, non sappiamo quasi cosa farcene, perché siamo privi della risorsa più importante: le idee e le competenze. Perché se ragioniamo sulle cifre, qui parliamo di quasi mezzo bilancio dello Stato: 260 miliardi di euro, tra extra-debito, deficit, risparmio di interessi grazie alla Bce, 32 miliardi dal Mes e 172 miliardi dal Recovery Found. E invece di tanta coreografia, basterebbe tornare ai fondamentali e cercare di non sprecare questo fiume di risorse che possono o risollevarci e svecchiarci definitivamente come paese, oppure affossarci definitivamente sommersi da un debito insostenibile.

Basterebbe appunto tornare alla cose essenziali e strutturali, senza cercare lontano o guru altrove. Manutenzione (anche tecnologica e di rete), infrastrutture (non cattedrali nel deserto), dissesto idrogeologico, taglio (poderoso) del cuneo fiscale, semplificazione amministrativa, sistema centralizzato delle banche dati per combattere una volta e per tutte l'evasione, un sistema di tutela sociale che non serva solo per le pandemie (e dentro ci sta un servizio sanitario nazionale moderno e razionalizzato, quanto un sistema semplice e veloce di ammortizzatori sociali reali), e una forte spinta alla sinergia di impresa, per rendere il sistema competitivo nel suo complesso e non frastagliato in micro-realtà che da sole non stanno nemmeno in piedi (ad esempio i fondi e le garanzie si danno a chi "si mette insieme" e realizza un progetto comune, non più ai singoli).

Queste cose le sanno tutti, e non servono pompose riunioni in cui conta chi c'è e si evidenzia chi non c'è, come se fosse un circoletto privato, utile passerella per chi conta e chi no. Perché chi conta e chi è capace sta altrove in questo Paese. È storia, purtroppo, e nessuno ce la deve insegnare, ma sta a noi ricordarla.

MICHELE DI SALVO