Se osserviamo gli animali in libertà, senza dimenticare che anche noi lo siamo, ci accorgiamo che non conoscono né vecchiaia, né lunghe malattie ed invece, con il nostro incauto comportamento, abbiamo condannato a queste maledizioni anche gli animali domestici.

La natura nella sua infinità saggezza, o Dio se vi fa più piacere, non aveva previsto per l’uomo che si potessero superare i 30 - 40 anni: la menopausa per le donne, la calvizie per gli uomini, la presbiopia per entrambi sono aberrazioni non programmate. L’uomo viveva nel vigore della giovinezza e moriva nel pieno delle proprie forze, non conosceva l’umiliazione del degrado fisico e la morte per consunzione.

Già nel VII-VI secolo, con Saffo e Mimnermo, la lirica greca sente la vecchiaia come una malattia incurabile. Ne vengono individuati i sintomi: inaridimento della pelle, imbiancamento dei capelli, dolori articolari e debolezza delle gambe, problemi di vista, depressione e desiderio di morte. Anche nella Retorica di Aristotele si offre un quadro del tutto negativo del vecchio, attribuendogli cattivo carattere e egoismo.

Se passiamo al mondo latino del II secolo a.C., Terenzio fa pronunciare a un personaggio della sua commedia Phormio la frase che abbiamo posto come titolo a questa conversazione, ma senza il punto interrogativo: a Demifone che gli chiede come mai si è trattenuto tanto tempo a Lesbo, il vecchio Cremete risponde: "mi ha trattenuto una malattia" e aggiunge "mi chiedi quale malattia?

La vecchiaia stessa è una malattia". Quelli che Cecilio chiama ‘stupidi vecchi da commedia’ sono gli anziani afflitti da creduloneria, smemoratezza, dissolutezza, mali che non dipendono dall’età senile, ma da una senilità vissuta nell’inerzia, nell’ignavia, nella sonnolenza… L’età senile è degna di onore, se sa tutelarsi da se stessa, se sa salvaguardare i propri diritti, se a nessuno aliena la propria autonomia, se fino all’ultimo respiro sa amministrare i suoi di casa. Poi la civiltà, la prosperità e la medicina hanno aggiunto anni alla vita senza aggiungere vita agli anni, dando luogo alla vecchiaia, una maledizione tra le più difficili da tollerare.

Il nostro corpo invecchia, ma dentro molti di noi rimangono giovani. Ci è vietato guardare le ventenni con cupidigia, ma la bellezza ancora ci attrae irresistibilmente; non abbiamo davanti a noi molti anni da vivere, ma non ci rassegniamo all’idea di morire. Spesso riusciamo a sopravvivere decentemente, ma quando siamo costretti dall’avanzare inesorabile degli anni e dalle malattie a subire mille limitazioni, ci sentiamo degli abusivi della vita. Raramente siamo tanto saggi da apprezzare ciò che ci resta ed a temere di perderlo. Per fortuna c'è il lavoro, questo lavoro... Leggere, organizzare, scrivere... sapere che sei ancora utile per gli altri... senza essere legato a nessuno, senza padroni... Ma la mazzata più forte che ci riserva la vecchiaia è la perdita del proprio compagno. Non vi è saggezza che possa confortarci, non siamo fatti per restare da soli.

Abbiamo rinunciato al branco, ma siamo programmati per vivere in coppia, è scritto a chiare lettere nel nostro Dna. Si può essere felici su di una sedia a rotelle, se vi è qualcuno che ci spinge amorevolmente. Si riesce a vivere con qualsiasi menomazione, se a confortarci vi è il nostro compagno, ma è una pena feroce continuare a vivere la vecchiaia per il sopravvissuto. Chi muore per primo non capisce la sua fortuna; dovunque egli vada il compagno che resta va all’inferno. Maledetta vecchiaia.

ANONIMO NAPOLETANO