Il biglietto della lotteria che abbiamo vinto in Europa andrà incassato a metà ottobre. Dunque ci restano 60 giorni per programmare una mega-spesa di 208,8 miliardi, come dire 145 milioni all’ora di qui alla scadenza, 2 milioni e mezzo al minuto. Torna in mente quel film hollywoodiano dove il nipote, per poter incassare l’eredità dello zio, doveva dimostrarsi capace di dilapidare una cifra assurda in soli tre mesi (e alla fine ci riusciva, per il rotto della cuffia). Ecco, a noi di mesi ne restano appena due per decidere nientemeno che il futuro dell’Italia, dei nostri figli e nipoti. Dunque verrebbe da immaginarsi un Ferragosto anomalo: mobilitazione eccezionale del governo, clima di febbrile vigilia nei partiti, fioritura di idee e proposte dalle forze sociali per sfruttare al meglio un mega-bonus che capita una volta e mai più. Insomma, ci si attenderebbe un vasto, impegnativo, appassionato dibattito nazionale su come impiegare quel bendidìo. Invece zero di tutto ciò. Celebrata la vittoria in Europa, il Recovery Fund è scomparso dai radar della politica. Inghiottito nel buco nero delle inchieste sulle colpe del Covid. Soppiantato dalla caccia agli "onorevoli" arraffoni (e alla "gola profonda" che li ha smascherati). Sconfitto per tre a zero dalla ricandidatura di Virginia Raggi e dalla giravolta grillina sul doppio mandato. Surclassato perfino dai commenti sul costume tricolore della Meloni e dalla cintura Hermes di una radiosa Maria Elena Boschi, beata lei che se lo può permettere. Intanto l’estate avanza, le giornate si accorciano e la scadenza incombe. Ma c’è di peggio. Il governo procede senza una bussola precisa, senza un’idea condivisa del domani, senza un progetto dell’Italia da rifondare. Intorno al tavolo ovale di Palazzo Chigi non risulta che se ne sia mai discusso, nemmeno per un minuto. Anziché assumersi il rischio di tracciare la rotta dichiarandola onestamente al Paese, Conte ha scelto la strada già inaugurata con il simposio di Villa Pamphili: raccoglierà suggerimenti dal Gatto e dalla Volpe. Ai ministeri, agli enti territoriali, alle imprese partecipate, ai cosiddetti "player", il premier domanderà premuroso e attento: "Che cosa vi serve? Di che avete bisogno?". Consulterà i sindacati, le imprese, le mille associazioni e lobby che spingeranno per sedersi a tavola. Ciascuno di questi soggetti formulerà proposte tanto dispendiose quanto settoriali. Dopodiché il governo coglierà fior da fiore. Deciderà come spartire l’immensa torta tramite un comitato (CIAE) composto dal premier, dal ministro degli Affari europei, dal titolare degli Esteri e da quello dell’Economia, in perfetto equilibrio tra Cinque stelle e Dem. Per quanta resistenza possano opporre Enzo Amendola, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri e lo stesso premier, il rischio di subire un "assalto alla diligenza" sarà nell’ordine delle cose. A un certo punto, forse inizio settembre, il Parlamento verrà coinvolto. Ma in assenza di un Piano nero su bianco, e in presenza di troppe chiacchiere, non si capisce che razza di contributo le Camere potranno dare. Dovranno contentarsi di qualche audizione. E quando l’assemblaggio delle proposte sarà stato completato, mancherà il tempo per discuterne a fondo. Così la grande scelta del domani verrà archiviata. Si poteva procedere in altro modo? Certo che sì. Per esempio, come ha fatto notare Giorgio La Malfa, il governo avrebbe potuto assumersi la responsabilità di assegnare in anticipo le risorse sulla base delle priorità Ue: quanto per l’economia verde, quanto per la digitalizzazione, quanto per il Sud, per l’istruzione, per la salute e così via. Invece di gestire direttamente la montagna di miliardi tramite il CIAE, esponendosi al sospetto di un uso finalizzato al consenso, avrebbe potuto affidarsi a un Mario Draghi, comunque a una figura indipendente e universalmente stimata, che valutasse i progetti sulla base di regole semplici e trasparenti. Purtroppo Conte si tiene stretto il bottino, preferisce distribuirlo in prima persona per coltivare il culto di se stesso. Ma dargliene la croce sarebbe eccessivo: il premier fa quello che gli viene consentito. E a concedergli carta bianca sul Recovery Fund sono i partiti. Totalmente distratti, opposizione compresa. Salvini preferisce bastonare i migranti, pensando di ricavarne più voti in vista delle Regionali; o forse non riesce a digerire che l’Europa ci sia venuta in soccorso. Dal canto suo Zingaretti ha spremuto un articolo per il "Corriere" dove, invece di indicare al governo poche priorità ma chiare, allunga la lista della spesa preoccupandosi che nessuno rimanga deluso. Mai si era vista, nella storia della Repubblica, una tale abdicazione della politica. Ma se perfino sul Recovery Fund i partiti non hanno nulla di importante da dire, sarebbe meglio chiuderli (e buttar via la chiave).

UGO MAGRI