Perché no al taglio dei parlamentari? Questa la posta in gioco. Manca poco più di un mese al referendum sul taglio dei parlamentari. Il 20 settembre, giorno del voto referendario, oscurato dalle tv, come l’altro di 150 anni fa, cade nel giorno e mese della breccia di Porta Pia che segnò la fine del potere temporale dei Papi e l’unificazione dell’Italia. 150 anni dopo, il referendum confermativo sopra un taglio lineare della rappresentanza popolare nell'organo parlamentare. Riducendo la rappresentatività del parlamento è inevitabile la crescita del potere delle piccole oligarchie di partito. E’ questo un punto essenziale in contraddizione palese con la pulsione anti-casta a base della riforma. Un falso voto anti-casta, il si, che rafforza le caste esistenti, rendendole potenzialmente inamovibili anche grazie al combinato disposto con la legge elettorale. Che dal porcellum, arrivando al rosatellum, da 15 anni ha tolto ai cittadini la libertà di selezionare ed eleggere, scegliendoli, i propri rappresentanti. A base del si al taglio ci sono solo pulsioni degne dell’Uomo qualunque: i parlamentari sono troppi e inutili e pure dannosi, denaro buttato, alla lunga traditori della volontà popolare, una casta. Il risparmio, irrisorio, del taglio, meno di un caffè al giorno, facilmente duplicabile (e oltre) riducendo prebende e bonus, diretti e indiretti, per parlamentari e portaborse sempre più numerosi e meno qualificati e incontrollati(bili). Ricordo un mio Maestro, Giuseppe Grosso, grande romanista docente universitario. Fece ottimamente il sindaco a Torino, rinunciando all'indennità e facendo pure lezione ai suoi studenti. Si dirà "altri tempi", non è questione di tempi ma di tempra morale di chi sa distinguere tra potere come servizio alla comunità e potere come accumulazione per sé e intimi adepti. Scriveva Calamandrei che quando il parlamento scrive una Costituzione, i banchi del governo sono vuoti. Qui non solo, dopo i fallimentari tentativi abortiti di Berlusconi e Renzi, non si è messa in sicurezza la Costituzione con previsione di più larghe maggioranze per cambiarla e blindandone i principi fondamentali contro i ladri di democrazia di turno e il rischio delle tirannidi illiberali, sempre all'opera. Ma si è gettata la norma costituzionale che appartiene al popolo sovrano nel pantano di accordicchi contingenti e strumentali ad intese opache e temporanee. Diceva bene Umberto Terracini, presidente dell’ Assemblea Costituente, II sottocommissione, seduta del 18.09.1946 e Commissione per la Costituzione, seduta del 27 gennaio 1947, non è retorico passatismo ascoltare un galantuomo: "...il numero dei componenti un’assemblea deve essere in certo senso proporzionato all'importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale"; "la diminuzione del numero dei componenti […] sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni"; quanto alle spese "ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza".

ANTONIO CAPUTO