"Il taglio dei parlamentari è un inganno, una trappola che mette a rischio l’elaborazione collettiva delle decisioni del governo, a prescindere dai correttivi che chiede il Pd". Il costituzionalista Michele Della Morte, promotore del documento dei 183 accademici che ha dettagliato in cinque punti le ragioni tecniche per le quali è necessario opporsi al taglio dei parlamentari, analizza con HuffPost il tema oggetto della riforma costituzionale, che attende di essere confermata nella chiamata alle urne di settembre. Il colloquio arriva nelle stesse ore in cui il segretario del Pd Nicola Zingaretti è tornato di nuovo a parlare di pericolosità della sforbiciata agli scranni, questa volta insistendo sull’importanza di modifiche ai regolamenti, richiesta che si somma alla necessità di una nuova legge elettorale proporzionale come punto di caduta per continuare a sostenere il sì.

Il fatto che rende perplessi è che la Costituzione sia in balia di una legge ordinaria, quella elettorale, che per di più ancora non c’è. Si può approvare una riforma così?

È chiaro che c’è una condizione difficile in ambito politico che nasce dalla malsana idea di porre sullo stesso piano un’armonia costituzionale e la convinzione che si possa fare qualcosa in più attraverso dei correttivi, che peraltro sono del tutto paventati, perché si va a votare il 20 e 21 settembre, ma di questi non v’è ancora traccia.

Il Pd sembra un po’ condannato al letto di Procuste del Movimento 5 stelle, cioè ad adattarsi forzatamente, se dovesse prevalere davvero il sì, a una situazione molto difficile e scomoda, a un’amputazione o deformazione dei suoi valori.

Diciamo così: quando un accordo politico coinvolge la Costituzione, non è mai una cosa buona. Subordinare una riforma costituzionale alla tenuta di un governo è un’operazione che andrebbe evitata perché i governi passano, ma le costituzioni restano. Un cambio di opinioni da parte dei dirigenti del Partito democratico (tre volte hanno votato no, poi sì, ndr) è una condizione che mette in difficoltà chi è preoccupato, come Zingaretti, per una tenuta istituzionale complessiva. Si possono avere idee diverse sul taglio dei parlamentari, il problema vero è se la riforma, come in questo caso, prescinde da qualsiasi idea di forma di governo e forma di Stato.

Quali sono i rischi effettivi se passasse?

Che interi territori restino senza rappresentanza e che venga ridotto il pluralismo politico, ricordando che la rappresentanza nasce proprio per garantire questo pluralismo. Se ci fosse un mix tra legge elettorale attuale e riduzione drastica del numero di parlamentari su base lineare, ciò avrebbe un effetto ultra maggioritario che sicuramente lederebbe il principio di rappresentatività.

Quale sarebbe lo scenario se dovesse vincesse il sì con l’attuale Rosatellum bis, sistema elettorale maggioritario per 37% dei seggi?

Innanzitutto accadrebbe una asimmetria molto forte tra Camera e Senato. In molte regioni piccole o medio-piccole arriverebbero in Senato pochissime forze politiche, forse uno o due. Un’ampia parte dei cittadini del territorio non avrebbero rappresentanza ed è una situazione che già abbiamo con l’attuale legge elettorale, che crea uno scenario a macchia di leopardo, ma con il taglio dei parlamentari si assisterebbe a un effetto moltiplicatore nocivo.

Il Parlamento funzionerebbe meglio con meno deputati e senatori?

Il Parlamento è espressione del pluralismo politico ed è collegato alla rappresentanza come elemento fondamentale di equilibrio tra la libertà e l’autorità, cioè il luogo della discussione, ed è anche una questione di numeri. Se si discute tra poche persone non è la stessa cosa che se si discute tra più persone. Solo in questo secondo caso le idee possono essere portate, difese e possono essere elementi di modernizzazione del Paese. Per cui tutto questo tema dei correttivi sconta l’idea di funzionalità, l’idea che un Parlamento funzioni meglio se agisce rapidamente ratificando le idee del governo, ma la centralità parlamentare ha un altro significato. Il Parlamento dovrebbe ridiventare il luogo dell’elaborazione e della discussione e del controllo del governo.

Tutto ciò però sembra in chiaro contrasto con la logica populista.

Che infatti è una logica riduttiva che svela il suo volto anti-parlamentare.

Il funzionamento del Parlamento è garanzia di salute di un sistema democratico?

I grandi maestri democratici del Novecento hanno sempre indicato il Parlamento come elemento ideale per garantire il connubio tra l’autorità e la libertà. Quando manca l’elaborazione collettiva, la libertà della decisione, il principio di pubblicità della discussione e il pluralismo politico, naturalmente si va a discapito della collettività e della tenuta democratica.

Quando si tratta del Movimento 5 stelle, tanti temi si riducono al tema del risparmio, in questo caso con la riforma si sbandiera un taglio dei costi della presunta casta parlamentare, che però voi costituzionalisti ritenete un risparmio irrisorio e ingiustificato.

Il risparmio è non solo irrisorio, ma si conferma l’idea che la lotta ai privilegi dei parlamentari sia una formidabile leva per attirare i risentimenti delle persone, che sono il vero motore della politica italiana degli ultimi anni. Per la ‘democrazia del pubblico’, termine coniato da Bernard Manin, è necessario alimentare la rabbia perché la gestione di essa può produrre una chiusura oligarchica. Il taglio dei privilegi è una cosa che tutti possono vedere e che tutti collegano a qualcosa di intollerabile, quindi da lì si crea l’appoggio popolare alle decisioni della politica. Si tratta ovviamente di un appoggio popolare pensare ad arte, l’idea secondo cui il popolo si esprime solo attraverso la contestazione di privilegi.

C’è una sorta di rifiuto della complessità?

Certo. E il progetto populista si fonda sul rifiuto della complessità, quando invece la complessità è una condizione inevitabile della democrazia. Questa riforma, in particolare, porterà a una progressiva privatizzazione della politica italiana.

Professore, ritorniamo un attimo sul punto della legge elettorale. Se dovesse passare il sì al referendum, sarà poi possibile per i governi futuri cambiare tante altre volte la legge elettorale, incidendo con essa (che è una legge ordinaria) su una riforma costituzionale, quindi di rango superiore?

Non solo la legge elettorale potrà essere modificata da qualsiasi maggioranza, ma far passare la riforma senza una legge elettorale adeguata, darà vita a maggioranze ancora più forti e sarà a quel punto sempre più facile cambiare legge elettorale. Quest’ultima diventerebbe l’ago della bilancia di un sistema asimmetrico e quindi si perpetuerebbe una prassi deleteria di cambio della legge elettorale a ogni governo. Per concludere, siamo di fronte a una riforma estrema, non meditata, di corto respiro e che manca di un’idea di centralità del Parlamento.

Alcuni studiosi dicono che il Parlamento italiano è stato pensato male fin dal principio, fatto che ha poi portato negli anni a un eccesso di decretazione. È d’accordo?

Io credo che esso sconti la scomparsa dei grandi partiti di massa, la crisi delle formazioni partitiche. La Repubblica si regge ancora su grandi leggi di sistema, penso allo Statuto dei lavoratori, alla legge sul Sistema sanitario nazionale, di cui in questi mesi abbiamo visto l’importanza e la lungimiranza. Questo per dire che quando il Parlamento ha voluto pensare a una grande legislazione organica, ci è riuscito. Dall’avvento del sistema elettorale maggioritario, la situazione è radicalmente cambiata.

Maria Elena Capitanio