Gente d'Italia

Referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari: perché diciamo “No”

Cominciamo da qui, dai soldi, perché è l’argomento «forte» del Movimento 5 Stelle, sebbene non originale. Quattro anni fa, infatti, era stato il Pd (Renzi) a scrivere sui suoi manifesti che «Basta un sì per cancellare poltrone e stipendi» – è noto che quel referendum costituzionale lo vinsero i no. Sul manifesto dei grillini c’è scritto adesso «1 miliardo per i cittadini», a tanto ammonterebbe il risparmio ottenuto con 345 «stipendi» parlamentari in meno. La cifra è fortemente esagerata: per raggiungerla ci vorrebbero dieci anni (due legislature) e 100 milioni di risparmi l’anno. I 5 Stelle giurano che saranno tanti ma è facile smentirli. Gli ultimi bilanci di camera e senato indicano infatti tra indennità e rimborsi una spesa di 144,885 milioni di euro per i deputati e 79,386 milioni per i senatori. Il che vuol dire che 230 deputati in meno garantirebbero un risparmio di 52,9 milioni e la rinuncia a 115 senatori significherebbe risparmiare 28,530 milioni. Anche così la promessa grillina non è rispettata, il totale fa 81,430 milioni in meno l’anno, non 100. Ma è un calcolo fatto al lordo delle tasse, perché lo stato recupera una parte dell’indennità sotto forma di Irpef e di addizionali regionali e comunali. Sono circa dieci milioni di gettito per i deputati e sei per i senatori. Il risparmio netto quindi è più basso: 42,7 milioni per i deputati e 22,7 milioni per i senatori, totale 65,4 milioni l’anno. C’è di più: una quota dei rimborsi che spettano ogni anno ai deputati e ai senatori è destinata a pagare i collaboratori. Chi vuole tagliare le «poltrone» non ha ancora mai detto di volere parimenti licenziare gli assistenti (e per certi versi, anzi, il loro numero potrebbe addirittura salire, vedremo più avanti). Il vero risparmio netto dunque può essere calcolato in 36 milioni per i deputati e 17 milioni per i senatori, per un totale che è quasi la metà di quello annunciato dai sostenitori del sì.

NON SI TOCCANO ALTRE VOCI Ma è giusto mettere tanta attenzione ai risparmi, quando si parla di un’istituzione come il parlamento? Se la vostra risposta è comunque sì, e anche 50 milioni l’anno non vi sembrano affatto trascurabili, è bene considerare che questo risparmio ottenuto tagliando la rappresentanza permetterebbe di fare economia sulle spese annuali di camera e senato soltanto per il 2,5%. Per avere un metro di paragone, si può considerare che le spese totali di camera e senato per il personale (stipendi e previdenza, parliamo quindi di tutti tranne che degli eletti) sono di circa 350 milioni l’anno. Vale a dire sette volte quello che si risparmierebbe rinunciando a 230 deputati e 115 senatori. Queste spese non saranno toccate. Cinquanta milioni all’anno vuol dire che per arrivare al miliardo di minori spese reclamizzato da Di Maio (che ha anche già pubblicato uno schema di cosa intende fare, subito, con quei soldi) bisognerà arrivare alla fine di quattro legislature intere con il parlamento ridimensionato. A partire dalla prossima (se vincono i sì). Quindi appuntamento al 2043. Intanto gli economisti dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani guidato da Carlo Cottarelli hanno calcolato per il taglio di 445 parlamentari un risparmio molto vicino a quello che abbiamo stimato noi, per loro sono 57 milioni l’anno. E hanno aggiunto che si tratta appena dello 0,007% della spesa pubblica italiana (camera e senato hanno bilanci autonomi, ma evidentemente i risparmi comporterebbero minori trasferimenti pubblici). Dividendo infine il risparmio annuo per tutta la popolazione italiana, l’Osservatorio sui conti pubblici ha concluso che si tratta dell’equivalente di un caffè (0,95 centesimi) all’anno per ognuno di noi 60 milioni. In cambio di un bel taglio alla rappresentanza.

GIÙ IL RAPPORTO TRA ELETTI E POPOLO La rappresentanza, eccoci al punto. Gli aspetti da valutare sono due. Il primo è il rapporto tra il numero degli abitanti e il numero dei parlamentari (deputati e senatori). Più è alto questo rapporto, meno i cittadini sono rappresentati, nel senso che un parlamentare deve rappresentare una fetta maggiore di «popolo». Allora facile capire perché negli ultimi cento anni i deputati siano sempre cresciuti, prendiamo come riferimento la legislatura del 1919 perché fu la prima in cui entrò in funzione l’attuale aula di Montecitorio (e fu l’ultima legislatura senza Benito Mussolini tra i banchi), allora gli italiani non arrivavano a 40 milioni. Dal 1919 a oggi i deputati sono aumentati di 112 unità (erano allora 518), sempre crescendo con l’eccezione delle due legislature elette con il sistema plebiscitario durante il regime fascista. Curiosità: in quel periodo i seggi per i deputati furono ridotti proprio a 400 come si intende fare adesso. Nel 1948 la Costituzione non previde un numero fisso di deputati e senatori. I primi avrebbero dovuto essere uno ogni 80mila abitanti o frazione superiore ai 40mila, mentre i senatori sarebbero stati uno ogni 200mila abitanti o frazione superiore a 100mila. Di conseguenza nella prima legislatura i deputati furono 572 e i senatori 237. Il rapporto con la popolazione fu congelato nel 1963, quando una riforma costituzionale stabilì un numero fisso di parlamentari: 630 deputati e 315 senatori (più i senatori a vita e gli ex presidenti della Repubblica). Malgrado siano trascorsi quasi sessant’anni da quelle riforma costituzionale, il rapporto tra elettori ed eletti è rimasto su per giù lo stesso: è un po’ aumentato alla camera, dove oggi c’è un deputato ogni 96mila abitanti ed è un po’ diminuito al senato, dove c’è oggi un senatore ogni 192mila abitanti. Con il taglio queste proporzioni sarebbero stravolte.

DIVENTEREMO GLI ULTIMI TRA I PAESI UE «L’Italia è il paese con il numero più alto di parlamentari». Quante volte lo avete sentito dire dalla propaganda per il sì? Talvolta lo slogan viene appena un po’ corretto aggiungendo «elettivi» a «parlamentari», tanto è evidentemente falso: basta dire che nel Regno unito i parlamentari sono più di 1.400. Ma a Londra ci sono i lords che hanno una funzione e soprattutto una carica, non elettiva, imparagonabile a quella dei nostri rappresentanti del popolo. Problema simile c’è con molte altre camere «alte» degli altri paesi, che spesso sono non elettive o rappresentano le autonomie locali o gli stati federati. Più facile il raffronto con le camere «basse», ovunque elette direttamente dal popolo. Oggi l’Italia con i suoi 96mila abitanti per deputato è uno degli stati con maggiore rappresentatività: più del Regno unito (un deputato ogni 102mila abitanti), più dell’Olanda (uno ogni 114mila), della Germania e della Francia (entrambe hanno un deputato ogni 116mila abitanti) e più della Spagna (uno ogni 133mila). Un rapporto maggiore tra elettori ed eletti rispetto al nostro c’è in Danimarca, Finlandia, Svezia, Belgio, Polonia, Grecia e Portogallo, tra gli altri. Non è corretto però dire, come dicono i 5 Stelle, che con la riforma l’Italia si «allineerà» ai maggiori paesi europei. Il taglio di 230 deputati infatti porterà il nostro rapporto fino a un deputato ogni 151mila elettori. Diventeremmo cioè di colpo il paese con la peggiore rappresentatività tra tutti i 28 appartenenti all’Unione europea. E di gran lunga, visto che dopo di noi ci sarebbe la Spagna, ferma a un deputato ogni 133mila abitanti. Peraltro a Madrid la camera «alta» è a composizione mista – in parte è eletta a suffragio universale, in parte è designata dalle comunità autonome – comunque più grande del nuovo senato italiano (266 senatori contro i nostri 200) per una popolazione assai inferiore (46 milioni contro i nostri 60 milioni).

TERRITORI PENALIZZATI (CHI PIÙ, CHI MENO) Ma il problema della rappresentanza è anche un altro e riguarda i territori. Perché diminuendo notevolmente il numero degli eletti a livello nazionale, meno 230 deputati e meno 115 senatori come detto, diminuisce ovviamente quello dei rappresentanti dei singoli territori. Fino a diventare un numero esiguo, questo è vero soprattutto al senato. Con 196 senatori (quattro sono destinati a essere eletti all’estero) da distribuire nelle venti regioni – confermate le «quote minime» di un senatore in Valle d’Aosta e due in Molise – il taglio sarà pesante dappertutto. Ma non ugualmente pesante. Per esempio la Toscana perderà sei senatori (da 18 a 12), con un taglio del 33,3%. Sotto la media nazionale, che è del 36,5%. Più penalizzato il Friuli Venezia Giulia, che subirà un taglio del 42,9%, stessa percentuale dell’Abruzzo (entrambe le regioni passeranno da 7 a 4 senatori). Male anche la Calabria, con meno 40% (da 10 a 6 senatori). Ma soprattutto a essere penalizzate saranno l’Umbria e la Basilicata, che passeranno da 7 a 3 senatori, per entrambe meno 57,1%. Un abisso paragonato al Trentino Alto Adige, che – per via delle due province autonome alle quali è stato garantito un numero uguale di senatori – perderà in totale appena un seggio, scontando una diminuzione della rappresentanza parecchio sotto la media nazionale: meno 14,3%. Il risultato di questa distribuzione è la fotografia di un’Italia diseguale, dove in Trentino Alto Adige in media ci sarà un seggio elettivo per il senato ogni 171mila abitanti. E in Sardegna un seggio elettivo ogni 328mila abitanti, vale a dire quasi il doppio. Naturalmente questo ha effetti anche sulla rappresentanza politica, penalizzando le liste meno forti, oltre che sulla rappresentanza territoriale.

LA SOGLIA DI SBARRAMENTO «NATURALE» Della legge elettorale parleremo altrove, ma intanto è bene ricordare che i partiti – maggioranza e opposizione – si stanno attualmente dividendo attorno alla questione della soglia di sbarramento. Nella proposta all’esame della camera questa soglia è fissata al 5% e c’è chi la considera, con buone ragioni, eccessiva. Ma è solo la soglia «esplicita», quella che è scritta nella legge. Assai più alta è la soglia «implicita», quella che concretamente le liste dovranno raggiungere per sperare di avere un eletto, questo proprio perché gli eletti nel collegio sono molto pochi. Ancora una volta dunque il problema si pone soprattutto al senato. Per esempio, in Liguria dove si eleggeranno, se il taglio sarà approvato, solo cinque senatori, superare il 5% non servirà a niente, visto che la soglia «implicita» sarà di oltre il doppio (circa il 12,5%). La Basilicata con i suoi tre senatori soltanto vedrà all’opera una soglia effettiva di quasi il 20%: raggiungibile secondo gli attuali sondaggi soltanto da due partiti. Il problema, attenuato, si pone anche alla camera. Al senato è più pesante perché si aggiunge la previsione costituzionale in base alla quale la camera «alta» deve essere eletta su base regionale. Questo vuol dire che un partito per conquistare rappresentanti sul territorio deve superare entrambi gli sbarramenti a livello regionale, quello legale e quello «naturale» (il secondo è di regola più alto del primo). A questo secondo problema si sta cercando di porre rimedio con una riforma costituzionale appena all’inizio dell’iter parlamentare: cancellerebbe la base regionale per l’elezione del senato, introducendo come per la camera la base circoscrizionale. Resta il problema che partiti piccoli, quando sul territorio si eleggono pochissimi rappresentanti, sono condannati a restare fuori.

LAVORI PIÙ DIFFICILI, MENO EFFICIENZA Poco male, si dirà, se tutto questo servirà a rendere il parlamento più efficiente. Perché è questo l’altro argomento ricorrente nei discorsi dei sostenitori del sì. Meno parlamentari significa lavori più spediti, posto l’indimostrato teorema che un parlamento è tanto più efficiente quanti atti legislativi produce. Spesso è vero il contrario. In ogni caso, è proprio così? In realtà oggi – anche prima dello stato di emergenza, che ha esasperato i problemi – l’attività parlamentare è impostata secondo i ritmi del governo. Decreti legge da esaminare entro la scadenza e questioni di fiducia sono la regola. Il problema della sottomissione del potere legislativo alle esigenze di quello esecutivo, di vecchia data, non sarà per niente scalfito dalla diminuzione del numero dei parlamentari. Soprattutto perché questa viene fatta con un chiaro intento anti parlamentare, visto che si tratta di rinunciare a un costo considerato improduttivo. Nella realtà la camera e il senato, condannati da un bicameralismo paritario – che non è nemmeno scalfito da questa riforma – possono comunque lavorare in sincrono, portando avanti contemporaneamente progetti di legge diversi. I lavori delle commissioni poi non saranno per nulla facilitati, visto che i regolamenti prevedono che possano andare avanti con un terzo dei commissari presenti: il che significa nove deputati o cinque senatori. Un numero troppo basso per un serio lavoro redigente. A meno di non poter contare su uno staff molto largo e molto competente, come per esempio avviene nel senato degli Stati uniti, dove i pochi senatori hanno a disposizione risorse enormi per gli uffici e i collaboratori. In conclusione, quindi, per avere garantita nel nuovo parlamento a ranghi ridotti almeno l’efficienza attuale, bisognerà spendere di più.

REGOLAMENTI SUPERATI, MA NON CAMBIATI C’è il famoso accordo di maggioranza, che aveva previsto alcune condizioni perché il Pd e gli altri alleati dei 5 Stelle dessero (...) (...) il via libera al taglio dei parlamentari. Il sì c’è stato ma le condizioni, chiamate «riequilibri», non si sono realizzate. Non si è realizzata anzi non è stata neanche approvata in commissione quella legge elettorale a base proporzionale che dovrebbe recuperare – ma colo un po’ – la perdita di rappresentatività che certamente deriverà dal taglio lineare dei parlamentari. E non si sono realizzate le altre riforme costituzionali che, giusto o sbagliato che sia, Pd e Leu avevano considerato sufficienti a «riequilibrare» le istituzioni: l’equiparazione dell’elettorato attivo e passivo di camera e senato, la riduzione dei delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica e la già citata introduzione della base circoscrizionale anche per l’elezione del senato. Ma dove si avverte tutta l’incompletezza della riforma costituzionale voluta dei 5 Stelle è nel mancato aggiornamento dei regolamenti parlamentari. Che sono stati scritti per i numeri attuali dei senatori e deputati e prevedono una serie di soglie a garanzia soprattutto delle minoranze. Trenta deputati, per esempio, oggi possono chiedere l’inversione dell’ordine del giorno, chiedere la votazione a scrutinio segreto, presentare subemendamenti agli emendamenti del governo: ovviamente 30 su 630 è molto diverso rispetto a 30 su 400. Le liste più piccole avranno difficoltà a formare un gruppo (20 deputati e 10 senatori), persino a entrare in tutte le attuali 14 commissioni e nelle giunte. In definitiva la vita delle minoranze sarà più difficile. I regolamenti, si dice, possono essere cambiati. È vero, ma a parte che non sarà facile – serve la maggioranza assoluta e c’è il voto segreto – non ci si doveva pensare prima?

IL PASTICCIO DEL VOTO ALL’ESTERO Probabilmente non è il principale, ma un bel problema il taglio dei parlamentari lo pone anche per la rappresentanza degli italiani all’estero. Rappresentanza prevista da una riforma pensata male (Tremaglia) e realizzata peggio, ma che in ogni caso oggi stabilisce (legge 459 del 2001) che i deputati e senatori eletti all’estero siano scelti con il sistema proporzionale e l’indicazione della preferenza. Oggi la circoscrizione estera più grande è quella europea (oltre due milioni e mezzo di residenti iscritti all’Aire) a seguire quella dell’America meridionale (un milione e mezzo), assai più piccole le circoscrizioni dell’America centro settentrionale e di Africa, Asia e Oceania. Non avendo avuto il coraggio di rinunciare ai seggi assegnati all’estero, con il taglio dei parlamentari nazionali è stata tagliata anche la delegazione estera, percentualmente un po’ meno: si passa infatti da 12 a 6 deputati e da 8 a 4 senatori. Il risultato è che il deputato eletto nella circoscrizione più piccola (Africa, Asia, Oceania) sarà tre volte più rappresentativo di quello eletto nella circoscrizione più grande (Europa). Il pasticcio principale è stato fatto con i senatori, che essendo solo quattro gioco forza saranno uno per circoscrizione, che sia una circoscrizione grandissima o piccolissima. Avremo così un senatore in rappresentanza dell’Europa intera, con tutto quello che significa in termini di campagna elettorale (impossibile e/o dispendiosissima) e rappresentanza. Ma anche con il tradimento del principio proporzionale stabilito dalla legge: tutti i collegi senatoriali delle circoscrizioni estero saranno nei fatti dei collegi uninominali. Il seggio andrà infatti a chi prende un voto in più e a lui soltanto.

UN SACRIFICIO LINEARE SLEGATO DA TUTTO I difetti e le mancanze di questa riforma costituzionale sono tali che anche i sostenitori del sì a volte ricorrono all’argomento definitivo: in fondo sono quasi quarant’anni (dalla prima commissione bicamerale per le riforme) che si propone la riduzione dei parlamentari. È vero, ma mai era stata proposta come un taglio lineare senza altri interventi sull’impianto istituzionale. È vero anche che per la riduzione si è schierata in passato la sinistra, soprattutto dopo che le assemblee (legislative) regionali hanno ampliato e spostato verso il basso la rappresentanza. Ma la proposta (Ferrara, Rodotà, 1985) anche in quel caso era di sistema e soprattutto prevedeva il monocameralismo. Una sola camera di 600 deputati eletta con una legge proporzionale non avrebbe tutti i problemi in termini di penalizzazione della rappresentanza territoriale e politica che ha invece la riforma dei 5 Stelle. Riforma, quest’ultima, comparsa per la prima volta in un documento ufficiale nella nota di aggiornamento al Def del settembre 2018 (governo gialloverde Conte-Salvini) legata però a doppio filo con l’introduzione della «democrazia diretta». Velocissimo l’iter di approvazione: dalla prima lettura della prima deliberazione (febbraio 2019 al senato) alla seconda lettura della seconda deliberazione (ottobre 2019 alla camera) sono passati appena otto mesi. Difficile trovare precedenti così rapidi di riforme costituzionali negli ultimi venti anni. Persino l’abolizione della pena di morte nel 2007 e l’introduzione della parità di genere nell’accesso alle cariche elettive nel 2003 sono state più meditate. L’unica modifica costituzionale che è stata approvata a questa velocità (anche a maggioranza qualificata) è stata l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione nel 2012. Quasi tutti se ne sono pentiti.

ANDREA FABOZZI

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