Per la terza volta in quattordici anni agli italiani viene chiesto se sono d’accordo a ridurre il numero dei propri rappresentanti in Parlamento. Ma a differenza di quanto accaduto nel 2006 (riforma del centrodestra) e nel 2016 (riforma Boschi-Renzi) quando la questione era inserita all’interno di una revisione complessiva dell’assetto delle istituzioni (in entrambi i casi bocciata dagli elettori), all’«election day» del 20 e 21 settembre - si voterà anche in sette regioni e 1.184 comuni - la domanda referendaria sarà circoscritta e aritmetica: volete voi diminuire del 36,5% deputati, da 630 a 400, e senatori, da 315 a 200)?

Dalla risposta degli elettori (alla vigilia l’esito appare scontato con una prevalenza del sì), chiamati per la prima volta alle urne dopo il rinvio dovuto all’emergenza Covid-19, dipenderanno gli assetti dell’attuale Parlamento e del Governo. Il testo della riforma costituzionale è stato approvato nella seconda votazione al Senato l’11 luglio 2019 e alla Camera l’8 ottobre 2019. La maggioranza di due terzi dei componenti è stata raggiunta solo a Montecitorio e non in entrambi i rami del Parlamento: circostanza che avrebbe escluso la possibilità di svolgere un referendum sul testo.

Di cui invece hanno fatto richiesta 71 senatori (numero superiore a un quinto dei membri di una Camera) entro il termine dei tre mesi dalla pubblicazione della legge. Il referendum era stato fissato inizialmente il 29 marzo ma l’emergenza causata dal coronavirus ha fatto slittare il voto al 20 e 21 settembre.

GLI SCHIERAMENTI

Tra l’ultimo via libera del Senato e quello della Camera è avvenuto il cambio di Governo: dal primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto da M55 e Lega al secondo affidato ancora al professore pugliese di diritto privato ma con il Pd al posto del partito di Matteo Salvini. Un passaggio che ha prodotto un effetto sulla composizione degli schieramenti per il Sì e per il No che non coincidono con maggioranza e opposizione.

La riduzione del numero dei parlamentari è una storica battaglia del Movimento 5 Stelle, che negli ultimi giorni di campagna elettorale ha messo in campo tutti i suoi esponenti di rilievo, a partire dall’ex capo politico e ministro degli Esteri Luigi Di Maio, per far prevalere il via libera alla riforma. Un risultato che servirebbe ai Cinquestelle per compensare, almeno in parte, i risultati negativi dei propri candidati alle regionali e che rilancerebbe la "battaglia anticasta": dopo l’intervento sui vitalizi e sulla "platea" degli eletti, il prossimo passo - già annunciato - sarebbe la riduzione degli stipendi dei parlamentari.