"Può apparire strano che ancora oggi qualcuno si occupi – in termini di analisi culturale – dello sviluppo del Mezzogiorno. Il problema [...] è andato nello scorso decennio gradualmente perdendo vigore e incidenza. Tanto che si può dire con un po’ di semplicismo che la questione meridionale non è più di moda e che il philium culturale da essa per anni rappresentato è oggi pressoché estinto". Queste le parole di Giuseppe De Rita. Pronunciate oggi? No, più di cinquanta anni fa e contenute in una raccolta antologica di saggi sul "Lungo Mezzogiorno" recentemente pubblicata dall’infaticabile, acuto e lucidissimo analista dell’economia e società italiana. Valutazioni di stringente attualità: pur con l’alternarsi di periodici "ritrovamenti" e fasi di oblio oggi, dal punto di vista del dibattito culturale, il quadro non è cambiato sostanzialmente. Le differenze di benessere tra le zone del paese sono ancora molto marcate (come ci ricordano autorevolmente le più recenti analisi della Svimez), ma la pandemia ha portato alla luce questioni più urgenti, finendo per porre in seconda battuta, nella discussione sulle policy, il Piano per il Sud 2030 presentato a febbraio dal Ministro per il Sud e per la Coesione territoriale. L’attenzione politica è concentrata sulle risorse della Recovery and Resilience Facility: oltre 191 miliardi di euro, ma non bisogna dimenticare che fino al 2030 il Mezzogiorno dovrebbe essere destinatario – tra fondi europei e nazionali – (in particolare nel periodo 2021-27) di circa 123 miliardi di Euro. Non sono quindi i fondi a mancare (malgrado le esperienze del passato inducano ad essere vigili sul loro effettivo utilizzo). Il dibattito sulle diversità dello sviluppo ha dimostrato che i problemi non riguardano tanto le risorse e la crescita, quanto piuttosto la coesione sociale e la capacità delle società locali di essere partecipi di un effettivo processo di rigenerazione. "La questione meridionale è una questione economica ma è anche una questione di educazione e di morale […] L’Italia meridionale non deve chieder nulla: deve solo formare la sua coscienza, perché reagisca alla continuazione di uno stato di cose che impoverisce e degrada". Così scriveva Francesco Saverio Nitti nel 1901 (sic!). A 120 anni di distanza rimane centrale la diversificazione delle società locali e le variegate forme di disuguaglianza. Bene hanno fatto quindi le "Linee guida", messe a punto dal governo per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (che dovrà essere presentato a Bruxelles per il Recovery Fund), a collocare il Piano per il Sud nella missione "equità sociale, di genere e territoriale". La "questione" deve essere riportata nelle più generali politiche di inclusione e sulle forme di partecipazione delle società locali. È quanto sostiene da tempo De Rita: puntare sulla forte partecipazione alle scelte di sviluppo di un’articolata gamma di soggetti locali, per renderli attori primi del proprio destino. Ma più volte le strategie del passato hanno cercato di valorizzare il protagonismo locale, in alcuni casi i risultati sono stati buoni (in genere mai eccezionalmente buoni) in tanti e forse troppi altri casi sono stati modesti risolvendosi in defatiganti e sfibranti processi di concertazione e nell’emersione di egoismi locali conditi da una buona dose di protagonismo politico-elettorale. Una volta inseriti nell’ordinamento amministrativo processi nati spontaneamente (come i Patti territoriali) hanno realizzato una forma di "entificazione" tradottasi in rigidità burocratiche e affermazione di particolarismi, avulsi da qualsiasi chiara strategia di sviluppo. Nei decenni si sono sprecati i richiami alla responsabilità delle classi dirigenti locali che, se hanno avuto qualche effetto, spesso sono caduti nel vuoto, fornendo la giustificazione per policy più top-down. Il problema della partecipazione però resta e si può affrontare solo riportando al centro del dibattito culturale la questione, non secondo l’ormai trito approccio del divario, ma in base a una più aggiornata responsabilità europea, che considera le multiformi traiettorie della crescita. Non è tanto la disponibilità di fondi a rendere permanente lo sviluppo quanto una responsabilità istituzionale impostata sulla base di rinnovate forme di coesione sociale. Rinnovate sì, perché già a metà del 1700 l’abate Antonio Genovesi – iniziatore della scuola di economia civile – evidenziava nella mancanza di "fede pubblica" e nel "buoncostume" uno dei principali problemi del Regno di Napoli. Recovery Fund, nuova programmazione dei Fondi strutturali europei, Piano per il Sud, c’è l’occasione per fare politica di sviluppo per la coesione inserita nelle direttrici nazionali e soprattutto europee: evitiamo che sia l’ennesima occasione per "ritrovarsi e … dirsi addio".

GAETANO FAUSTO ESPOSITO, SEGRETARIO GENERALE DI ASSOCAMERESTERO