La nuova versione - chiamata D614G - è più contagiosa del 20%. Uno studio di Houston dimostra che ormai è diffusa al 99,9%. Analizzando infatti le sequenze genetiche virali ottenute da migliaia di pazienti colpiti dalla COVID-19, l'infezione scatenata dal coronavirus SARS-CoV-2, in primavera un team di ricerca internazionale guidato da scienziati americani del Laboratorio Nazionale di Los Alamos ha scoperto un ceppo del patogeno più contagioso, in grado di infettare meglio le cellule umane. Questo ceppo – basato su una mutazione chiamata D614G – si è affermato rapidamente in diverse parti del mondo, e in particolar modo in Europa, in Nord America e in alcune regioni dell'Asia come la Malesia. Poiché il tasso di mortalità delle infezioni da coronavirus rispetto ai mesi scorsi si è sensibilmente ridotto, alcuni esperti sostengono che tale mutazione abbia reso il patogeno sì più contagioso e quindi in grado di diffondersi meglio, ma anche meno letale.Tra i principali sostenitori di questa teoria vi è il professor Paul Tambyah, presidente eletto dell'International Society of Infectious Diseases e consulente senior presso l'Università Nazionale di Singapore. Lo scienziato ha affermato che le prove della diffusione della mutazione è andata di pari passo con la riduzione del tasso di mortalità, pertanto si può supporre che tale ceppo virale sia anche meno letale. "È nell'interesse del virus infettare più persone e non ucciderle, perché un virus dipende dall'ospite per il sostentamento e la protezione", ha dichiarato l'esperto, aggiungendo che forse avere un virus più contagioso ma meno mortale è una "cosa buona". All'inizio della pandemia numerosi scienziati avevano previsto un calo della letalità delle infezioni, proprio perché i virus – in linea di principio – generazione dopo generazione tendono a essere meno aggressivi per tutelare l'ospite e proliferare. Malattie comuni come il raffreddore o l'influenza, probabilmente quando emersero dopo lo spillover (il salto di specie da animale a uomo) erano decisamente più aggressive e letali, "calmandosi" dopo un certo periodo di adattamento. È proprio quello che potrebbe essere successo al SARS-CoV-2. La mutazione D614G risiede nella proteina S o Spike del coronavirus, quella struttura a "ombrellino" che circonda il pericapside o peplos (il guscio esterno) del patogeno donandogli l'aspetto a corona (da cui il nome della famiglia) quando osservato al microscopio elettronico. La proteina S gioca un ruolo fondamentale nell'infezione, dato che è quella che si lega al recettore ACE2 delle cellule umane, permettendo la disgregazione della parete cellulare e l'introduzione dell'RNA virale, dando il via al processo di replicazione e dunque alla malattia (COVID-19). Mutazioni della proteina S preoccupano gli esperti poiché potrebbero rendere i vaccini attualmente in studio inefficaci (molti, come quello di Oxford, puntano proprio a colpire questa proteina), ciò nonostante il professor Tambyah ha dichiarato che quelle come la D614G, pur influenzando il legame della proteina Spike, non necessariamente interferiscono col riconoscimento della proteina da parte del sistema immunitario, pertanto la protezione sarebbe comunque garantita.