L’emergenza dovrebbe essere, per definizione, un evento improvviso e circoscritto nel tempo. Quando l’emergenza diventa consuetudine duratura, per quanto sgradevole ) possa essere, si chiama normalità. L’Italia ha una certa abilità nel trasformare l’emergenza in norma. O, piuttosto, nell’ostinarsi a chiamare emergenze le rogne che non sa risolvere. Prendiamo la cosiddetta emergenza maltempo: ormai sono anni che, a ogni cambio di stagione, intere regioni d’Italia, città grandi e piccole, vengono messe in ginocchio da piogge, frane e inondazioni. Ogni volta si segnala l’eccezionalità dei fenomeni, probabilmente frutto del cambiamento climatico. Ma quello che abbiamo visto ancora ieri nel nordovest del paese, con ponti crollati e case trascinate dal fango, non ha a che vedere con la meteorologia, spiegano i climatologi. Ha a che vedere con la devastazione del territorio, e con la cronica impreparazione a gestire gli eventi naturali. Lo stato di emergenza per il covid, che sarà prorogato ancora fino al 2021 e che tanto scandalizza alcuni più o meno probabili paladini della libertà, è forse uno dei pochi reali e giustificati usi della parola emergenza che sia rimasto nel nostro dibattito pubblico: per quanto abbia stravolto nel profondo le nostre vite, il coronavirus c’è entrato relativamente da poco, e sperabilmente, se la ricerca sul vaccino manterrà quanto promette, non ci rimarrà a lungo. Il paventato impiego dell’esercito per sorvegliare sul rispetto delle regole anti-covid, a ben guardare, non è quindi il campanello d’allarme di una militarizzazione della vita civile. Piuttosto la spia del solito vizio di non sapersi gestire nel giorno per giorno, neanche se si tratta di indossare una mascherina o tenere puliti gli scarichi piovani, per poi ritrovarsi a boccheggiare sperando che venga qualcuno a salvarci.

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