È minuscolo, al massimo 200 nanometri (ossia 0,2 micron). Ha la classica "coroncina" composta dagli spike, gli uncini che gli servono per arpionare la cellula da infettare. Come tutti i virus, non può esistere senza l’ospite perché per riprodursi usa le nostre cellule. Si potrebbe dire che non è nemmeno propriamente un essere vivente, ma certo fa di tutto per esserlo, e non si ferma se non impedendogli di saltare da un ospite all’altro. Il Sars-Cov-2, responsabile della pandemia di Covid che sta colpendo duramente il pianeta ormai da dieci mesi, potrebbe essere il protagonista di un romanzo a suspence: la sua famiglia è arcinota, i coronavirus responsabili di patologie gravi come la Mers e la Sars ma anche dei banali raffreddori (ce n’erano già sei conosciuti in grado di infettare l’uomo, questo è il settimo), visto al microscopio sembra un cugino molto somigliante ai suoi predecessori, eppure è ancora un mistero su diverse, cruciali questioni.

CARATTERISTICHE GENERALI Sfuggente, dalle manifestazioni cliniche più diverse, contagiosissimo, subdolo. L’intuizione di Stephen King in uno dei suoi più celebri e terrificanti romanzi, ‘L’ombra dello scorpione’, che sembra farsi realtà: a mettere in ginocchio il mondo, in un futuro prossimo che speriamo non arriverà mai, non sarà secondo lo scrittore una nuova peste nera, una piaga fatta di sangue, di bubboni, di orrore, ma un banale, apparentemente familiare raffreddore (fuggito da un laboratorio). Perché questo coronavirus ha tutto per essere pandemico, sembra fatto apposta si potrebbe dire, se non si rischiasse di scivolare nel complottismo. Quando si è affacciato alle cronache mondiali aveva davanti a sé una platea di sei miliardi di esseri umani tutti suscettibili di contrarre l’infezione, ammassati, in movimento, disabituati da decenni di relativo benessere sanitario (ovviamente parliamo dell’Occidente "ricco") a curare l’igiene (quella vera, fatta di disinfettanti, non di profumi alla moda) e a temere le infezioni respiratorie. Con un tempo di incubazione molto più lungo, da 2 a 14 giorni, rispetto ai suoi "parenti" già noti. E con la capacità di contagiare che, a differenza per esempio della Sars, molto più letale in assoluto ma con le polveri bagnate proprio per questo, scatta già in fase di incubazione e si fa massima poco prima della comparsa dei sintomi, quando il positivo ignaro conduce ancora una vita normale. È il motivo principale per cui la Sars ha fatto "solo" 8mila casi e 774 decessi: l’isolamento del malato è molto più semplice, perché quando è contagioso è anche fortemente sintomatico. Ed ecco perché, malgrado i controlli negli aeroporti di tutto il mondo e i termoscanner diffusi ormai anche nel negozio sotto casa, il Covid-19 viaggia oltre i 35 milioni di casi e il milione di vittime in tutto il pianeta.

TUTTO EBBE INIZIO A WUHAN - Tutto comincia lo scorso inverno a Wuhan, 11 milioni di abitanti, metropoli moderna adagiata tra il Fiume Azzurro e il fiume Han, a 1.100 chilometri da Pechino. Da lì, per l’esattezza dal grande ‘wet market’, mercato del pesce e di altri animali vivi nel cuore della città, il 31 dicembre 2019 le autorità cinesi comunicano finalmente al mondo che c’è un virus nuovo, che scatena feroci polmoniti con esito anche fatale. Oggi sappiamo che questo annuncio è venuto con colpevole ritardo: in Francia già il 27 dicembre è stata appurata la positività di un uomo con polmonite bilaterale ricoverato a Parigi e senza alcun contatto con Wuhan o con la Cina in generale. E in Italia una ricerca pubblicata ad agosto dall’Istituto Superiore di Sanità ha dimostrato che il virus dimorava tranquillamente nelle acque di scarico a Milano e Torino addirittura il 18 dicembre. E un altro studio ha individuato tracce di Rna virale nelle acque reflue di Roma e Milano a febbraio, giorni prima che, il 24 febbraio, la scoperta del ‘Paziente 1’ a Codogno aprisse ufficialmente la stagione dell’epidemia in Italia. Ma da dove viene il virus? Si suppone un contagio zoonotico, ossia il passaggio da un animale all’uomo: probabilmente un mammifero, forse lo zibetto come per la Sars, oppure più probabilmente il pipistrello. Improbabile sia un "virus chimera" creato in laboratorio: questi prodotti ingegnerizzati infatti contengono frammenti di acido nucleico da più virus diversi, mentre il Sars-Cov-2, come dimostrato da una ricerca pubblicata su Nature Medicine, ha un genoma che non deriva da nessun ceppo virale precedentemente utilizzato. In ogni caso, a oggi non conosciamo la data di nascita del nostro minuscolo nemico, né i genitori, né come è venuto alla luce.

TRASMISSIBILITÀ MOLTO ALTA Un campo su cui sappiamo molto invece, purtroppo grazie all’osservazione diretta, è quello della sua trasmissibilità. Secondo l’Oms, il tasso netto di trasmissione va da 1,4 a 3,8. Significa che nelle condizioni peggiori, e senza alcun controllo sulla pandemia, ogni malato è in grado di contagiare quasi 4 persone. Il che consentirebbe una crescita esponenziale, come abbiamo drammaticamente constatato a marzo, senza le misure di contenimento adottate. Il contagio avviene prevalentemente attraverso i droplets, le goccioline del respiro della persona infetta, che vengono espulse con tosse e starnuti o anche con la normale respirazione, parlando, ansimando, cantando. Le porte di ingresso sono bocca, naso e occhi. Basta stare vicino a un positivo (a meno di 1-1,5 metri, ma le variabili sono molteplici, a partire dalla dicotomia spazio chiuso-spazio aperto) per rischiare. A luglio inoltre l’Oms ha pubblicato un documento in cui finalmente accetta la possibilità che oltre al contagio "ravvicinato" ci sia il rischio di infezione da aerosol, ossia da micro-goccioline inferiori ai 5 micron in grado di rimanere sospese nell’aria e diffondersi a maggiore distanza. Già a marzo uno studio del Cdc americano aveva riportato il caso di un coro di 61 persone tra cui c'era un positivo asintomatico: dopo due ore e mezzo di prove si sono registrate 32 infezioni certe e 20 sospette. Mentre uno studio olandese sugli ospiti di una clinica psichiatrica ha rilevato che solo in un reparto su sette si è diffuso il contagio, ed era l’unico in cui c’era un sistema automatico di ricircolo dell’aria, con le finestre chiuse. Anche le lacrime sono contagiose, come rilevato ad aprile dai ricercatori dello Spallanzani di Roma. Persino nelle feci, ha accertato una ricerca cinese, è stato trovato il virus attivo. Fortunatamente invece la trasmissione da madre a figlio durante il parto o nei primi giorni di vita non è stata, almeno per ora, riscontrata, come suggerisce uno studio Usa pubblicato a luglio su Lancet in cui, su 120 neonati con madri positive nessuno ha contratto il virus, né alla nascita né a 14 giorni dal parto. Invece sembra che Sars-Cov-2 possa sopravvivere, in determinate condizioni, su alcune superfici per alcune ore, soprattutto su plastica e cartone.

CHI CONTAGIA IL COVID Ma chi contagia? Secondo uno modello matematico elaborato a marzo dall’università di Oxford il 40% delle infezioni sarebbe causato dalle persone sintomatiche, il 10% da contatto indiretto con superfici contaminate, il 5% dagli asintomatici e il 45% dai pre-sintomatici, che avrebbero quindi un ruolo significativo nella diffusione del virus proprio perché in questa fase dell’infezione il paziente, non essendo consapevole di averla contratta, non può essere isolato né adottare precauzioni che possano limitare il contagio. Appena pochi giorni fa un importante studio pubblicato su Science ha fatto il punto sui "superdiffusori", ossia l’ipotesi che alcune persone per cause ancora da accertare siano più contagiose degli altri: ne è emerso che l'8 per cento dei pazienti indice, quelli che danno origine a una catena di trasmissione, è stato responsabile del 60 per cento delle infezioni secondarie. Le regole di protezione ormai, dopo 8 mesi di pandemia, sono note a tutti: lavare e igienizzare spesso le mani, evitare contatti ravvicinati (meno di un metro), abbracci e strette di mano, pulire le superfici, cercare di non toccarsi occhi, bocca e naso con le mani, e poi ovviamente la mascherina. Di cui diversi studi hanno sottolineato l’importanza protettiva, sia per evitare il contagio sia, nel caso questo avvenga, per ridurre la carica virale. Dopo mesi di titubanza anche l’Oms a giugno ha pubblicato un documento che incoraggia l’uso delle mascherine specialmente quando il distanziamento fisico è difficile da realizzare. È praticamente certo ormai che ci si può reinfettare: dopo tanti mesi le prove sembrano inconfutabili, e i casi molteplici: nel Nevada è stato documentato il caso di un giovane di 25 anni che era risultato positivo a metà aprile, con sintomi moderati, e che si è reinfettato a fine maggio, sviluppando questa volta una forma più severa. Sempre negli Stati Uniti, in Virginia, sono state recentemente le reinfezioni di un militare addetto a servizi sanitari, che dopo essersi infettato il 21 marzo ed aver superato l’infezione dieci giorni dopo, è stato nuovamente testato positivo il 24 maggio, con sintomi più severi rispetto al primo episodio, e quella di un residente in una casa di riposo di Seattle, con un serie enfisema polmonare, che dopo aver superato una seria polmonite da Covid nel mese di marzo, si è reinfettato a 140 giorni di distanza dalla prima diagnosi.

PROTOCOLLI DIAGNOSTICI Se sulle terapie, come vedremo, la strada è ancora lunga, non mancano invece gli strumenti diagnostici, cruciali per identificare e isolare nel più breve tempo possibile un soggetto positivo. Lo standard è il tampone molecolare, che si basa sull’individuazione delle sequenze virali attraverso l’amplificazione dell’acido nucleico. Ha una affidabilità alta, fino al 90%, ma anche tempi lunghi di elaborazione, tecnicamente dalle 2 alle 6 ore, ma con i sistemi sanitari in affanno si arriva a diversi giorni tra l’esame e il referto. Di recente anche in Italia sono stati validati dei tamponi più rapidi, basati sul rilevamento, nei campioni respiratori del paziente, delle proteine virali (antigeni). Questi test, che utilizzano modalità di raccolta del campione del tutto analoghe a quelle dei test molecolari (tampone naso-faringeo) abbattono notevolmente i tempi di risposta, ma sono meno sensibili e c’è il rischio, ancora da quantificare con esattezza, di falsi positivi o peggio falsi negativi. Per questo in caso di positività ai test rapidi (utilizzati negli aeroporti e da qualche giorno anche nelle scuole) serve comunque la conferma del tampone molecolare. C’è poi la strada dei test salivari: proprio lo Spallanzani ne ha recentemente validati due: il primo ha mostrato livelli di sensibilità simili a quelli dei tamponi antigenici rapidi, ma il test deve essere ef­fettuato in laboratorio, quindi è difficile utilizzarlo per screening rapidi. La seconda soluzione invece è a lettura visiva, non richiede strumentazione di laboratorio, può essere quindi utilizzata fuori dai laboratori e dà i risultati in pochi minuti, ma risulta ancora avere una sensibilità molto inferiore rispetto al test molecolare standard. Quanto ai test sierologici, permettono di misurare la presenza degli anticorpi che il sistema immunitario produce in risposta all’infezione, ma non sono garanzia di una diagnosi "immediata", a causa del gap temporale tra l’infezione e lo sviluppo degli anticorpi, che compaiono di norma qualche giorno dopo. Per questo vengono usati prevalentemente a scopo di screening di massa: non si fotografa l’immediato, ma si ha un quadro abbastanza attendibile di quanti hanno contratto in passato il virus. L’indagine condotta prima dell’estate dall’Istat ha rilevato che il 2,5% del campione era stato a contatto con il virus, circa un milione e mezzo di italiani, con punte del 7,5% in Lombardia ma addirittura oltre il 40% nelle aree più colpite, come la val Seriana. Essersi ammalati comunque non garantisce l’immunità: sebbene sia un tema ancora dibattuto dagli scienziati, sono sempre più le evidenze secondo cui gli anticorpi iniziano a calare e poi a scomparire dopo alcuni mesi dalla malattia.

LA RICERCA SUL VACCINO Ma gli occhi del mondo sono ora puntati sulle terapie, e soprattutto sul vaccino: 213 quelli in fase di sviluppo in tutto il mondo, 42, secondo un recente report dell’Oms, quelli che sono stati avviati alla sperimentazione sull’uomo. Sono nove quelli che stanno affrontando l’ultima fase di sperimentazione clinica prevista prima della autorizzazione finale. Tra questi, oltre ai 4 vaccini prodotti da aziende farmaceutiche cinesi, anche quello prodotto dal russo Gamaleya Research Institute, gli americani Moderna e Jansen e gli europei Biontech e AstraZeneca, quest’ultimo colorato anche di tricolore visto il contributo della Irbm di Pomezia. Mentre lo Spallanzani collabora con le società italiane Reithera e Takis: il primo in particolare è in fase di test sull’uomo, partiti ad agosto. Proprio il vaccino Astrazeneca, malgrado il temporaneo stop di questa estate per un effetto collaterale su un volontario, sembra essere tra i più vicini al traguardo: entro l’anno potrebbe arrivare il via libera. Infine, le terapie disponibili: tutto il pianeta è al lavoro, e si contano qualcosa come 1.860 studi in corso. Il primo farmaco approvato per l’utilizzo specifico contro il Covi è stato il Remdesivir, farmaco antivirale originariamente sviluppato per il trattamento delle malattie collegate ai virus Ebola e Marburg, che ha ottenuto dalla FDA (Food and Drug Administration) l’autorizzazione per l’uso in emergenza negli Stati Uniti, e il 25 giugno ha ricevuto anche il via libera dell’Ema per l’Europa. E’ stato dato anche al presidente Trump.

FARMACI ANTIVIRALI Poi ci sono i cortisonici, per le forme severe, quelle della cosiddetta "tempesta citochimica" che porta il sistema immunitario a scatenarsi anche contro lo stesso organismo: idrocortisone, metilprednisone e soprattutto desametasone, vecchio ed economico farmaco anti asma, sul quale uno studio britannico ha rilevato benefici importanti, riducendo di un terzo la mortalità dei pazienti sottoposti a ventilazione e di un quinto di quelli a cui veniva somministrato ossigeno. Quanto a clorochina e idrossiclorochina, dopo tanti annunci è arrivata la doccia fredda: il grande studio internazionale promosso dall’Oms e dal significativo nome "Solidarity" è stato interrotto più volte e poi definitivamente chiuso il 4 luglio, senza risultati di rilievo. Anche sul biologico (in origine antitumorale) Tocilizumab dopo l’entusiasmo iniziale sono arrivati due studi di fase 3 da cui è emerso che il farmaco non ha migliorato lo status clinico dei pazienti con polmonite severa da Covid, né ha migliorato i tassi di mortalità dei pazienti a quattro settimane, anche se nei pazienti con forme meno severe c’era il 44% di probabilità in meno di una evoluzione della malattia verso la ventilazione meccanica. Quanto al plasma iperimmune, cioè estratto dal sangue ricco di anticorpi di pazienti che hanno superato l’infezione, è in corso uno studio italiano, ‘Tsunami’, mentre altre ricerche nel mondo non hanno ancora chiarito se questa strada porta a risultati efficaci, senza contare le difficoltà di approvvigionamento di un prodotto che ha bisogno di tanti guariti disposti a donare il sangue. Sembra più promettente, e non è un caso che anche questo tentativo è stato fatto dai medici di Trump, la via degli anticorpi monoclonali: nel Regno Unito, un cocktail di due anticorpi prodotto dalla società Regeneron (sono quelli dati al presidente Usa), è attualmente nella fase 3 di sperimentazione, ed è stato inserito nel trial nazionale RECOVERY, primo farmaco specificamente disegnato per il Covid. Altre società che stanno lavorando sugli anticorpi monoclonali sono la canadese AbCellera, in collaborazione con il gruppo farmaceutico Eli Lilly, e la statunitense Vir Biotechnology in collaborazione con il gruppo GSK. Lo stesso Spallanzani, con la Fondazione Toscana Life Sciences, stanno lavorando a questo filone. Sono stati già individuati 3 anticorpi particolarmente potenti, con l’obiettivo di poter avviare entro la fine del 2020 i test clinici sull’uomo.