Il garage di Lincoln Center non ha le lunghe code dei melomani che, uno dopo l’altro, si affollavano per assistere al Don Giovanni di Mozart o alla Tosca di Puccini. Ogni tanto un’auto, forse un commesso viaggiatore dal New Jersey, o un dirigente del Metropolitan Theatre che va a prendere la posta di fine mese, imbocca il cunicolo sotterraneo, la guardia esce pigra dalla garitta, controlla che il bagagliaio sia vuoto -memoria di quando a New York il terrore si chiamava jihad islamica- e torna lento al suo posto. Una bambina afroamericana salta con la corda sul marciapiede, la mamma la guarda e ne conta le evoluzioni, la strada è deserta, non passa nessuno. Leonard Bernstein immaginò qui il suo musical "West Side Story", Romeo e Giulietta tra le gang, ma ora ogni nota è spenta.

Di fronte, all’università dei gesuiti Fordham, il delizioso giardino pensile segreto per i turisti, ma amato dagli ultimi fumatori perché libero dal divieto imposto sul vicino Central Park dal salutista sindaco Bloomberg, - benemerita casistica dell’Ordine del Papa-, è sbarrato da una rude transenna metallica. La Chiesa di St. Paul, dei Padri Paolini, accoglie pochi fedeli a ogni funzione, la messa mattutina delle 8, frequentata da pendolari e suorine, cancellata, e il Vespro, detto Messa dei Giovani e dedicato alle famiglie gay, non riempie la domenica le panche di coppie a intonare il Salve Regina. Oltre Broadway, la sghemba avenue ricavata dal sentiero indiano, che dalle piantagioni di tabacco andava a Wall Street dove, sulla baia, si raccoglievano ostriche, il leggendario outlet Century 21 è chiuso, per bancarotta.

Vent’anni or sono c’era una grande libreria, Barnes&Noble e gli intellettuali dell’Upper West Side, ultimo bastione della sinistra Usa, lacrimarono sulla fine delle librerie indipendenti. Barnes & Noble divenne invece luogo amato dai bambini, che passavano il week end a leggere i libri illustrati, mentre i genitori ascoltavano gli scrittori presentare le nuove opere. Con che fretta il futuro insopportabile diventa rimpianto passato remoto! Barnes & Noble, detestata come violenza contro la cultura fu, a sua volta, compianta quando i tre piani tra Brodway e Columbus finirono in mano al centro commerciale Century 21. La crisi finanziaria del 2008 però, chiudendo gli anni d’oro del mercato globale, sguinzaglia lungo gli interminabili corridoi del Century anche i manager e le loro famiglie.

Chiunque trovava un saldo all’outlet, il ragazzo in cerca di magliette e jeans le comprava a prezzo stracciato e un abito Armani, che a Madison Avenue andava per 6.000 dollari era in svendita a 700 per il neo vicepresidente di una banca. Quando consegnavano le ultime novità, al mattino, le matrone russe, mogli degli oligarchi che han comprato casa da Columbus Circle a Central Park West, tutto cash, contante e niente domande Spasiba, rastrellavano dagli attaccapanni blazer Brion, tailleur Prada e borse Louis Vuitton a scontrini record e, nel pomeriggio, rivedevate i capi in offerta su Ebay.

All’angolo, davanti al vetusto ristorante cinese Shun Lee, dove le famiglie celebravano i compleanni con Anatra Laccata sotto il gigantesco drago portafortuna, Brooks Brothers è chiuso per bancarotta, come già la catena Lord&Taylor. E non riaprirà mai più, informa una dolente e mail spedita ai clienti. I sarti italiani che stringevano i pantaloni, resi famosi dalla scrittrice Mary McCarthy nella novella "The man in the Brooks Brothers shirt" son tornati a Queens, in cerca di lavoro, come la commessa romena, geniale nel trovare la giusta misura di ogni capo. Con loro, il sarto egiziano che regolava i capi da Century, raccontando i cambi di strategia del Medio Oriente.

Forse - spiega la mail mesta dall’azienda- le vetrine del quartier generale, a Madison Avenue, ritorneranno a sfolgorare, ma quando non si sa. Nel chiudere il negozio di Broadway, un solerte addetto scova un abito, rimodellato e mai ritirato da un cliente distratto, la saga per rintracciarlo e consegnarlo è dolce come un racconto di Cechov: il vestito pende adesso in un armadio, mai provato, a che servirebbe quel capo elegante nelle interminabili, glaciali, sedute da Zombie via Zoom, che sono vita quotidiana 2020?

New York paga la pandemia Covid-19 con 25.000 vittime, 33.000 malati, sofferenze per le famiglie, milioni di disoccupati, crollo del prezzo delle case, famiglie costrette a mettersi in coda alle mense dei poveri, campus universitari, dal nobile prato dell’alma mater Columbia al frenetico via vai di New York University al Village. Times Square, decaduta nella violenza dei rapinatori anni Settanta, si era trasformata in Disneyland di luci e pannelli pubblicitari, dove paciose famiglie da tutto il mondo si vedevano appioppare pessimo cibo surgelato e souvenir kitsch, ma, tornati a casa, rivedevano felici i selfie sul cellulare: Siamo Stati a New York Noi!

Con che cuore scenda fino al Theatre District, a Broadway, non so dirvi. La sera, ogni sera, le insegne, dai musical come "Hamilton" ai titoli colti d’avanguardia, vi scaldavano il cuore, cultura, vita, persone, idee, orchestre, corpi da ballo. Dall’ingresso per gli artisti vedevate passare le star, in fretta saltate fuori dalla limousine nera con i bodyguard, un saluto ai fan accalcati, oltre le transenne, con gli attori giovani a lanciare sguardi risoluti, "Domani le star saremo noi!" . Ora insegne spente, botteghini vuoti, taxi gialli che sfrecciano senza passeggeri, le bici ubique, trainate da motorini elettrici silenziosi, a consegnare cene e pranzi per chi evita i ristoranti.

Broadway staccava ogni anno 8,5 milioni di biglietti, dando lavoro a 100.000 persone, con incassi complessivi per 16 miliardi di dollari, 13,5 miliardi di euro. Brett Anders, manager di un teatro, confessa al New York Times, "Da ragazzo facevo il salumaio, dovrò tornare negli alimentari temo" I numeri sono terribili, e ogni settimana peggiorano. Li scorro sul cellulare mentre attraverso Central Park South, verso l’Hotel Plaza, teatro del Grande Gatsby - in quelle stanze eleganti il giovane provinciale Nick Carraway, alter ego dello scrittore Francis Scott Fitzgerald, scopre la crudeltà dei ricchi di Manhattan per poi finire come assegno di divorzio di Donald Trump alla prima moglie Ivana.

Disoccupazione al 16%, doppio della media del paese. Crollo pauroso nel gettito fiscale 2020, meno due miliardi di dollari. Case sfitte, mercato immobiliare stagnante, hotel vuoti per due terzi. Sabato ha chiuso il venerabile Hotel Roosevelt, 96 anni di storia, molti film girati nei saloni, 500 famiglie senza stipendio. Tra turismo e alberghi il 44% dei posti di lavoro, quasi uno su due, scompare. La metropolitana, la sola al mondo che funzioni 24 ore al giorno, e i bus, tagliano 4 corse su sei, si aspetta in mascherina brontolando. Gli uffici son desolati, ascensori bloccati, si lavora da casa, su Ebay e Amazon trovate in svendita poltrone e scrivanie di lusso, i nuovi assunti ricevono a casa uno scatolone fiammante con computer, uno stipendio ridotto del 30% e l’assicurazione di lavorare da casa per mesi.

Migliaia di persone non riescono a pagare l’affitto, gli sfratti, son per ora monitorati dall’inetto sindaco De Blasio, e dal grintoso governatore Cuomo, ma se il blocco saltasse, per troppe famiglie sarebbe la fine. Fuori dalle chiese e dalle organizzazioni caritatevoli file per la zuppa, come nel crack di borsa 1929, ma numeri e statistiche, non dicono la pena che si vive. J. è un preparatore atletico, un colosso di brav’uomo che allena signore e signori di mezza età. Di botto non lo chiama nessuno, si arrangia con qualche grama lezione via zoom, fa la fame.

E. è una devota cameriera polacca, cattolica fedele, che finito di rigovernare cucine correva in parrocchia ad aiutare i poveri. Licenziata, adesso è lei la povera a dover farsi aiutare dai parrocchiani. D. è il bravissimo barman di uno dei migliori bar del centro, amante dell’Italia, cortese, fidanzato con una ragazza russa, allegro: senza stipendio da marzo scarica pacchi ad Amazon. W. è la cantante di una band "In tour tornavo a casa con 10.000 dollari, ora ne raggranello mille e ci devo campare".

A., arrivato dall’Ecuador, lustra scarpe, non parla inglese, e si spezza la schiena per la figlia di due anni: "Stentavo ma vivevo, ora sono a un passo dall’elemosina". Ricchi e professionisti scappano in campagna, le case intorno alla zona di Woodstock, teatro del celebre festival rock 1969, due ore di macchina da Manhattan, costano tre volte più del 2019. In città restano poveri, lavoratori, giovani: "Vivo a Brooklyn in un monolocale, con la mia ragazza, come tanti coetanei" dice M. 31 anni "e ora dobbiamo anche lavorare insieme in pochi piedi quadrati".

New York ha letto il suo necrologio tante volte. Nel 1975, per la crisi fiscale, quando il presidente Ford non volle farle credito. Nel crollo di Borsa e del mercato immobiliare 1987, l’11 settembre 2001, nel crack Lehman Brothers 2008, negli anni ’70 della violenza quando la metropolitana era preda delle gang e i borghesi emigravano nei sobborghi. Tanti son persuasi che questa sia la botta finale, un esodo fatale, che si lavorerà da Long Island, sulla spiaggia, da Staten Island, dove Garibaldi e Meucci, l’inventore del telefono, fondevano candele, dai Catskills, le colline del Nord, dimenticate negli anni Sessanta come luogo di villeggiature (ricordate il film "Dirty Dancing"?) ora ripopolate dai newyorkesi esuli.

Il mio giro è finito, torno a Fordham University, dove una desolata panchina guarda il maestoso piazzale del Lincoln Center, con la fontana ad alzare i suoi spruzzi, senza che nessuno la guardi. I ristoranti pensati per il dopo teatro, Fiorello, The Smith, P.J. Clarke, Rosa Mexicano, allungano tavolini sui marciapiedi. "New York sembra Roma" mormora un italo americano. I primi freddi li respingeranno, solo un tavolo su quattro sarà disponibile nelle sale interne. Siamo a pochi giorni da Halloween, ma gli scheletri in vetrina fanno tristezza e pensare ai bambini che non potranno scorrazzare in cerca di dolciumi, trick or treat, stringe il cuore.

Natale sarà malinconico, a Capodanno Times Square sarà senza folla, nessuno a guardare a mezzanotte la Big Apple calare dal cielo, spumante spagnolo da due soldi, Codorniu, nel bicchiere di carta e tanta felicità. Guardo la mia città in silenzio, risento le ambulanze in corsa verso gli ospedali, come nei terribili mesi di primavera, quando non si dormiva per il suono delle sirene. Nessuno parla, le mascherine ci rendono comparse di una tragedia senza ultimo atto in vista. C’è tra noi newyorkesi una "chutzpa", una grinta sfrontata, secondo la parola in yiddish, che fa affrontare qualunque dramma a testa alta, "Se ce la fai qui, ce la fai ovunque" dicono i versi della ballata "New York, New York".

La zufolo piano dietro la mia mascherina per farmi coraggio, penso a quando camminavo sulla cenere del World Trade Center, vent’anni fa, e imprecavo "True grit", tenacia assoluta. Nel silenzio del weekend i miei passi risuonano su Broadway, sovrappensiero arrivo al numero 57 della Cinquantasettesima Street, un isolato dal civico 31, dove lavoravo per il Corriere della Sera, nella nobile e, ormai demolita, Libreria Rizzoli. I passanti guardinghi vedono le insegne del ristorante Rue 57, qualche vetrina chiusa, le targhe di un dentista, compagnie telefoniche, un caffè stento. Io resto impalato, in piedi, riconoscendo per caso l’indirizzo: 57th West 57th Street.

A nessuno dice ormai nulla, nessuno capisce perché, nella miseria della pandemia, me ne stia qui fermo. Da anni lavoro a un progetto infinito, i cui ritagli giacciono in una cantina, il censimento dei palazzi di Manhattan in cui la leggenda registra la presenza di fantasmi. Il celebre Dakota, su Central Park West, dove fu ucciso Lennon, e dove Polanski girò l’horror Rosemary’s Baby, teatro di apparizioni di una bambina e dello stesso Beatle. L’Empire State Building, dove nelle notti con poca turisti, si presenta nella terrazza che funge da osservatorio sulle luci di Manhattan, Evelyn McHale, vestita alla moda 1947, labbra scarlatte di rossetto come quando, in quel lontano maggio, si uccise lanciandosi dal grattacielo, sconvolta per la scomparsa del fidanzato in Germania.

O la "Casa della Morte" Downtown, 14 West 10th Street, dove l’avvocato Joel Steinberg uccise la figliastra Lisa, sei anni, ai primi del Novecento e una ventina di spettri appaiono a turno, incluso quello -si dice- dello scrittore Mark Twain, in completo bianco, inquilino dal 1900 al 1901 che testimoniava serafico dei fantasmi notturni. La storia del 57th West 57th Street la so a memoria, Edna Crawford era un’affascinante soubrette quando, nel 1922, sposa l’asso del ciclismo Albert Champion, arricchitosi inventando la candela per il motore delle auto. Edna vive gli anni ruggenti con passione, nel cuore l’elegante gigolo francese Charles Brazelle.

Insieme uccidono il povero Champion a Parigi, fingendo sia morto per infarto, così da ereditarne la fortuna. Con i soldi del sangue comprano la casa al 57th West 57th, ma Brazelle, rimorso o follia che sia, furioso di gelosia chiude Edna tra le mura che osservo al buio. L’epilogo è orrendo, Charles uccide Edna a colpi di telefono, allora gli apparecchi telefonici avevano la cornetta dura come una mazza, finché la guardia del corpo della donna, per fermarlo, non lo getta dalla finestra, finendolo.

Il nuovo proprietario, Carlton Alsop, lamentò per anni che l’angoscioso tic tac dei tacchi di Edna, in fuga sul pavimento, lo tenesse sveglio a notte mentre sua moglie, stufa, volle divorziare, gli affari andarono a rotoli, i cani presero a ululare da lupi mannari e fu infine costretto a scappare a sua volta. Storie d’altri tempi, di cui sorridevo nella frenesia, l’allegria, la forza, l’energia, la passione di New York. Nel silenzio funereo di queste notti, trasalendo alla sgommata di un Uber solitario, mi vien da pensare che i fantasmi, e conosco, fidatevi, ogni loro indirizzo, si sentano ora padroni dell’isola, finalmente liberi di noi, inutili e spaventati, i cosiddetti vivi.

GIANNI RIOTTA