di Bruno Tucci

 

I virologi e anche i politici appaiono tranquilli o, almeno così pare. Però, la matematica non è una opinione. E i numeri di ieri sono impietosi: 34505 nuovi casi (quasi 4000 più del giorno precedente) e 445 morti. Cifre impressionanti: mai un picco così alto dal 2 maggio scorso. Tanto che Gianni Rezza, il direttore del dipartimento della Protezione civile, in piena conferenza stampa legge i numeri e ammette: “Non è un buon segnale perché la situazione sembrava essersi stabilizzata”.

Allora, come dar torto a quanti vedono la tv o sfogliano i giornali? L’opinione pubblica, spaventata, si aspetterebbe un grido di allarme unico dinanzi ad a una simile ondata della pandemia. Invece, tra maggioranza e opposizione, la guerra non si attenua e si continua ad andare avanti fra liti e battibecchi. Che spesso superano il limite della decenza. Il Capo dello Stato non si stanca di ripetere che in queste circostanze è necessaria la parola “unità”.

Si potrebbe dire che è un “must”, ma fra i partiti è lotta continua un giorno si e l’altro pure. L’Italia, nell’ultimo Dpcm, è stata divisa in tre fasce: rossa, arancione e gialla, a seconda della pericolosità del virus. E subito, fra Stato e regioni, è nata una rissa.

Perché il verdetto non è corretto, non ha tenuto conto dei numeri e delle percentuali. Così, le “rosse” non ci stanno e protestano. La Calabria, ad esempio, si rivolgerà al Tar per ottenere giustizia. Lombardia e Piemonte assicurano che la classifica è stata fatta con dati vecchi di almeno una settimana. Insomma, la discordia dilaga e il ministro della Salute Roberto Speranza tuona: “Era una scelta obbligata vista la gravità della situazione. Certi governatori sono degli irresponsabili”.

Non c’è pace fra le istituzioni. Si litiga per i Ristori e il Recovery e il Mes. La Repubblica di stamane ha un titolo significativo: “Il tricolore della discordia”. Mentre il Corriere della Sera scrive in un editoriale che “il dialogo è d’obbligo”. Come risponde il Palazzo? Ignorando questi suggerimenti, anzi infischiandosene.

Se poi il popolo perde la fiducia nelle istituzioni con chi vogliamo prendercela? Non si comprende tanta ostinazione, non ci si capacita perché con il virus che avanza non si riesca a trovare uno straccio di accordo per combattere la pandemia. Sergio Mattarella convoca prima due governatori, Liguria ed Emilia- Romagna, poi i presidenti di Camera e Senato per cercare una via d’uscita che porti ad un patto di non belligeranza. “Apriamo un tavolo”, dice il Presidente del Consiglio, “dove si possa cominciare il dialogo”.

Ma a destra si risponde a tono ricordando che da aprile (o forse prima) si è tentata questa strada. “Abbiamo presentato duemila emendamenti”, replica Giorgia Meloni. “Ne avessero preso in considerazione uno! Allora, come si fa a parlare di dialogo?”

Chi paga le conseguenze di questa situazione è sempre Pantalone, cioè il cittadino o il contribuente che sente spesso pronunciare la parola “ristori” senza però vedere i soldi. Così, la protesta dilaga: esercizi pubblici, bar, ristoratori, gestori di palestre e piscine scendono in piazza per fortuna pacificamente.

Ma le casse sono vuote per i ristori e la speranza è una ed una sola. L’aiuto dell’Europa con il salva- stati (leggi MES) o con il Recovery Fund. Sembra di essere tornati ai tempi della prima repubblica quando all’onorevole Amintore Fanfani in Calabria si faceva vedere un’azienda modello con animali di prestigio. Che poi venivano spostati in gran fretta per un’altra ispezione e un’altra ancora. Mucche, pecore e cavalli erano sempre gli stessi. Speriamo non si ripetano i “corsi e ricorsi storici”, cari a Giambattista Vico.