La pandemia sta portando allo scoperto vari livelli di arretratezza culturale di quella che, con spavalderia ingiustificata, viene da taluni definita "società della conoscenza". I mass media, per esempio, anche se non mancano di proclamare la propria natura di servizio pubblico, hanno impiegato settimane, per non dire mesi, per capire che i dati assoluti sui contagi non dicono praticamente nulla se non vengono trasformati in percentuali, così come la loro insistenza sull'andamento della curva epidemica attraverso i dati giornalieri è del tutto fuorviante. Ma ora ci si mette anche il Governo il quale, per tentare di sottrarsi alla continua polemica con le Regioni, ricorre al principio dell'oggettività. Oggettività dei dati e, di conseguenza, delle restrizioni nelle tre aree individuate.

Tuttavia, questa strategia non sembra funzionare se si considerano le rinnovate e numerose proteste. Il fatto è che la questione dell'oggettività, antico problema di filosofia della scienza e in particolar modo delle Scienze sociali, nella pretesa governativa subisce una singolare distorsione. Il problema sul tavolo era, ed è, quello della stima della gravità in cui una determinata area si trova. Ma il tema centrale è in realtà duplice: da un lato c'è sicuramente l'aspetto dell'oggettività ma, dall'altro, c'è quello della "verità", ossia dell'affidabilità del criterio oggettivo nel definire la gravità di una situazione.

Facciamo un esempio semiserio. Se il Governo decidesse di adottare un criterio basato sulla lettera iniziale del nome delle Regioni, è ovvio che, poniamo, la Liguria cadrebbe in un'area di un certo colore mentre la Sicilia cadrebbe in un'altra. Il criterio sarebbe sicuramente altamente oggettivo ma altrettanto certamente sarebbe "falso" nel senso che non sarebbe in grado di definire la gravità della situazione pandemica. È ovvio che i 21 parametri stabiliti dagli esperti per collocare le varie Regioni nelle tre aree colorate sono cosa più seria, ma non è affatto detto che essi siano il più possibile veritieri nel senso della loro capacità discriminatoria fra una Regione ed un'altra in fatto di gravità. Perciò, non è il carattere oggettivo dello strumento adottato ad essere confortante bensì la sua, sperabile, potenza nel misurare e distinguere le varie situazioni locali. Per ora, comunque, abbiamo a che fare con questo criterio e c'è da augurarsi che sia il meglio possibile, anche se la sovrabbondanza di "aree gialle" pone qualche dubbio sulla capacità selettiva del modello adottato.

Andrebbe poi sottolineato un altro aspetto che riguarda le Regioni in quanto aree geografiche. Mai come in questa occasione salta agli occhi l'estremo irrealismo dei confini regionali italiani. È sufficiente dare uno sguardo ai confini, che so, della Liguria con il Piemonte, del Veneto con la Lombardia o della Puglia con la Basilicata per capire che, a parte le isole, le attuali Regioni sono separate da confini del tutto arbitrari e che, soprattutto, non tengono conto delle relazioni fisiche, di persone e di merci, nonché organizzative e sociali che si sono sviluppate da quando sono state disegnate, più di un secolo fa. Paradossalmente, l'attuale diffusione del virus sembra disegnare per conto suo una mappa assai più realistica di quella istituzionale. Al suo confronto, le aree rosse, arancioni e gialle sembrano camicie di forza per nulla sovrapponibili alla realtà. Sarebbe bene che, in futuro, si traesse dalla pandemia almeno lo stimolo per rivedere una situazione palesemente fuori ogni logica possibile.

di Massimo Negrotti