Sabato le televisioni americane hanno decretato il vincitore di un'elezione come non se ne erano mai viste negli Stati Uniti. Da allora, Joe Biden lavora da presidente eletto: "Mi impegno a essere un presidente che non dividerà, ma che piuttosto unirà. Che non vedrà Stati rossi (repubblicani) o Stati blu (democratici) ma solo gli Stati Uniti d'America", ha detto nel suo discorso della vittoria. In tutto il Paese abbiamo visto gente scendere in strada a festeggiare, bevendo e danzando nelle strade.

Ma nulla è semplice in un Paese diviso in tribù opposte come è oggi l'America. Il capo della tribù repubblicana infatti rifiuta di ammettere la sconfitta e definisce "imbroglioni" i membri della tribù rivale, quella dei democratici. E così anche se sono passati diversi giorni dalla proclamazione del vincitore, Trump continua a lanciare azioni legali in diversi Stati. Ad appoggiarlo, alcuni dei suoi fedelissimi. L'ultimo commento velenoso è venuto dal segretario di Stato, un uomo che probabilmente aspira a guidare lui stesso la tribù in futuro: "Ci sarà una transizione tranquilla verso la seconda Amministrazione Trump", ha detto ieri Mike Pompeo.

Parole che fanno riflettere: prima di tutto perché finora in questa transizione non c'è nulla di tranquillo e secondo perché nessuno si aspetta davvero che Trump e i suoi riescano a stravolgere la volontà popolare e ad appropriarsi di un'elezione che hanno perso. Le parole di Pompeo dunque puntano ad altro: a creare, nella società americana, una divisione permanente. Una tribù contro l'altra, almeno per i prossimi quattro anni.

Eppure le leggi che regolano il processo elettorale sono chiare: e garantiscono ai candidati che lo vogliono la possibilità di presentare ricorsi. Ma devono essere ricorsi motivati, mentre quelli del team di Trump finora sono sempre stati bocciati. Cosa dice dunque la legge americana?

Per prima cosa, che il presidente eletto è ufficialmente dichiarato vincitore delle elezioni solo dai grandi elettori, che entro il 14 dicembre devono esprimere il loro voto: fino ad allora ogni risultato è considerato non ufficiale.

Secondo: che il periodo di tempo che va dalla chiusura delle urne al voto dei Grandi elettori serve anche per controllare eventuali problemi di spoglio: i partiti in questa fase possono presentare ricorsi.

Terzo: che spetta al segretario di Stato di ciascuno degli Stati che sono parte degli Stati Uniti certificare formalmente il risultato e passare la mano ai Grandi elettori. I quali appunto il 14 dicembre vanno a Washington e nominano il Presidente eletto degli Stati Uniti d'America.

Una contestazione come quella che sta portando avanti Trump dunque non è normale nella storia americana: ma non è certo inattesa. Già nel 2016 l'allora candidato repubblicano disse che milioni di schede false o illegali erano state depositate nelle urne e che solo per questo non aveva vinto il voto popolare (allora, è bene ricordarlo, la maggioranza degli americani votò per Hillary Clinton. Ma in base al Sistema dei Grandi elettori la presidenza andò a Trump).

Allora però scelse di non contestare il risultato: oggi lo fa, continuando una tradizione che lo vede da tempo passare sopra alle leggi. E nessuno si aspetta che sospenda le contestazioni quando i risultati saranno dichiarati ufficiali, né dopo che Biden avrà giurato, il 21 gennaio.

Il rischio vero sono le divisioni che tutto questo provocherà: il messaggio di Trump infatti può potenzialmente creare una nuova tribù, quella composta da milioni di elettori che si ritengono truffati e per questo non riconoscono legittimità né al nuovo presidente né al suo governo. E Biden potrebbe vedere minato il suo messaggio di unità nazionale per mano dell'uomo che ha sconfitto, ma che rifiuta in ogni modo di ammettere di aver perso.

John Fiegener