I naviganti sanno bene che in mezzo alla tempesta il raggio luminoso può condurre alla salvezza. "I fari sono più utili delle chiese", scrisse Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d'America.

Il nostro è il tempo della postdemocrazia, tempo liquido, segnato da un nuovo decadentismo e per di più, adesso, provato dalla malattia. Scorgere un raggio sarebbe fondamentale per portare il Paese in salvo.

Il raggio luminoso, proprio come la torre che lo ospita, non va però inteso come l'uomo solo al comando o il partito unico, come l'ideologia della superiorità culturale o etnica e non può essere confuso neppure col plauso plebiscitario. Se il raggio fosse tutto o qualcosa di questo, non indicherebbe la strada corretta. Porterebbe dritto dritto a regimi radicati sulla dittatura della maggioranza, inconciliabili con il pluralismo e le libertà, essenza della democrazia. Porterebbe alla ripetizione di errori che la storia ha già condannato e che nessuno, a destra e sinistra, può pensare seriamente di replicare.

Il raggio luminoso è qualcos'altro: è il discorso "sui fini", sulla progettualità politica, è la visione e il pensiero di come sarà il Paese tra dieci o vent'anni, di come portarlo ad essere qualcosa di nuovo.

Questo pensiero, oggi, non c'è. Il problema più profondo della postdemocrazia e della postmodernità è infatti l'assenza dei fini. Questa pericolosa assenza è il risultato della trasformazione della politica da "solida" a "liquida", dello smarrimento valoriale, che non consente più di vedere nella politica stessa, nei partiti e nelle istituzioni i laboratori del pensiero, dei progetti e delle soluzioni. È un problema di molti Paesi, ma nel nostro è particolarmente accentuato.

Il tema etico, inteso come questione dei valori intorno ai quali si organizza il sentire comune del giusto e dell'ingiusto e dunque della scelta di cosa fare per il bene di tutti, è il vero tema che ogni discorso politico dovrebbe affrontare, anche e soprattutto quando il vento alza alte le onde.

Non ho in mente il modello dello Stato etico. E neppure propongo la "grande ammucchiata", a meno che non sia rivolta a creare un governo di salvezza nazionale, imposto dall'inettitudine dell'attuale, di durata limitata e condizionato al voto elettorale nella tarda primavera del prossimo anno.

Intendo sottolineare, piuttosto, la necessità di progettare e realizzare "fini" coerenti – per me – con lo Stato liberale che sappiano guardare oltre lo stato di emergenza. Oppure, per chi non crede nello Stato liberale, conformi ad una diversa scala valoriale e ad una diversa idea di società e di economia.

Solo tornando a progettare con sguardo di sistema – a destra come a sinistra, nello schieramento progressista come in quello conservatore, nel mondo liberale e in quello socialista, nel mondo cattolico come in quello laico – e solo tornando a confrontarsi sulle ricette concrete, sarà infatti possibile fermare il vortice che ha fin qui risucchiato ogni discorso "sui fini" e creato un vuoto abissale di soluzioni efficaci.

Un insegnamento della storia sopravvive e si dimostra di sorprendente attualità: i vuoti non durano mai a lungo perché qualcuno o qualcosa li colmerà rapidamente. Questo spazio si può riempire in due modi: tornando a scelte valoriali di media o lunga visione nelle quali la collettività si possa in qualche modo riconoscere; oppure lasciando il dominio al mercato globalizzato, alla tecnologia, agli algoritmi, alla massificazione, alle criptodittature, ai populismi o alle paure create o amplificate a bella posta. È su questa alternativa che deve cadere la scelta e sulla quale si gioca il destino del Paese.

di Alessandro Giovannini