di Cristofaro Sola

Da oggi il lessico delle espressioni idiomatiche cambia. Se per indicare un’umiliazione patita si ricorreva alla locuzione “andare a Canossa”, dopo la farsa della liberazione dei pescatori sequestrati nella Cirenaica di Khalifa Haftar si dirà “andare a Bengasi”. Perché la visita lampo di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio nel Paese nordafricano, per genuflettersi al cospetto di un tagliagole responsabile del sequestro dei 10 nostri connazionali imbarcati sui pescherecci della marineria di Mazara del Vallo, è stata un’umiliazione troppo grande da sopportare, anche per un Paese alla deriva qual è l’Italia al tempo dei Governi della sinistra. Intendiamoci, la liberazione dei nostri lavoratori del mare da un’ingiusta privazione della libertà, durata 108 giorni, è comunque una buona notizia. Siamo lieti per loro e per le loro famiglie: hanno sofferto e meritano di tornare a casa per riprendersi dallo stress della prigionia. Tuttavia, c’è modo e modo di risolvere una crisi originata da un atto di forza contro l’Italia. E il duo Conte-Di Maio ha scelto quello peggiore.

A pensar male si fa peccato però spesso si azzecca. Quindi, ci domandiamo: lo spettacolo indecoroso a cui abbiamo assistito è solo frutto della smania dei due politici ansiosi si intestarsi il successo della liberazione degli ostaggi o bisogna supporre che l’umiliazione subita a beneficio di telecamere sia stata parte del riscatto convenuto per riavere i nostri connazionali? E se questa ipotesi dovesse risultare veritiera, è lecito chiedere: chi ha negoziato per conto del Governo di Roma un prezzo tanto compromettente? A lume di naso, tenderemmo a escludere la responsabilità dei nostri servizi di Intelligence. Gli uomini e le donne che, dietro le quinte, lavorano a tenere in sicurezza gli italiani e i loro interessi all’estero difficilmente avrebbero potuto accettare una clausola vessatoria imposta da un capobanda macchiatosi di un grave crimine. Tutti i sospetti ricadono sull’ambigua figura di Giuseppe Conte e sulla tecnica che ha adottato da quando è approdato a Palazzo Chigi per procurarsi protettori importanti sotto la cui ala cercare riparo. Sappiamo che lo ha fatto nell’agosto del Papeete e della rottura con la Lega. Allora la motivazione che ha fatto breccia è stata: aiutatemi, sennò arriva Matteo Salvini. L’appello è diventato un refrain da tirare fuori nei momenti di difficoltà. Con i denari del fondo Next Generation Eu: aiutatemi sennò arriva Salvini. Adesso la questione dei pescatori detenuti in Libia. Conte ha avvertito la potenzialità deflagrante che quella crisi avrebbe avuto sulla stabilità del Governo. Consapevole di non riuscire a cavare fuori il ragno dal buco, il premier ha presumibilmente azionato la leva d’emergenza con gli sponsor europei. Di ciò se ne ha traccia nelle conclusioni del Consiglio europeo del 10-11 dicembre scorso laddove, al punto 40 del capitolo dedicato al “Vicinato meridionale”, si legge: “L’Unione europea chiede l’immediato rilascio dei pescatori italiani trattenuti in stato di fermo dall'inizio di settembre senza alcun procedimento giudiziario”. Conte, dunque, ne ha parlato con la signora Angela Merkel, presidente di turno del Consiglio europeo e con Emmanuel Macron, lord protettore del tagliagole di Bengasi, Khalifa Haftar. Ai due il premier italiano avrebbe ripetuto il collaudato appello-minaccia: aiutatemi sennò arriva Salvini. E visto che sia la tedesca sia il francese vedono l’approdo del leader della Lega a Palazzo Chigi come fumo negli occhi, non è da escludere che, per tenere l’Italia sotto schiaffo come solo Conte e il Partito Democratico possono garantirgli, si siano mossi. Come avere la prova certa che le cose siano andate in tal senso? Basterà attendere qualche tempo per vedere se ai francesi e ai tedeschi il Governo italiano darà il via libera per l’accaparramento di qualcuno degli ultimi gioielli di famiglia dell’apparato industriale-finanziario italiano ancora nelle mani dello Stato o di imprenditori autoctoni. Sarà fantascienza, ma se fossimo nei panni della famiglia Berlusconi non dormiremmo sonni tranquilli per il contenzioso aperto con il tycoon francese Vincent Bolloré che punta a fare un solo boccone di Mediaset.

Ma c’è anche un’altra pista da esplorare: è quella che conduce in Egitto, alla corte di Abd al-Fattāḥ al-Sisi. Anch’egli tira i fili di Khalifa Haftar. Gli fornisce armi e denari per combattere la guerra di conquista della Tripolitania, un tempo sotto influenza italiana e oggi riserva di caccia della Turchia neo-ottomana di Recep Tayyp Erdogan. Il nostro Paese ha una questione aperta con Il Cairo per il barbaro assassinio di Giulio Regeni, ma ha anche fruttuose relazioni commerciali riguardo allo sfruttamento delle risorse petrolifere presenti nelle acque della “Great Nooros Area” dell’offshore dell’Egitto. Il nostro Governo è stato particolarmente generoso con il dittatore egiziano, nonostante lo schiaffo ricevuto dalle locali autorità investigative e giudiziarie con la nient’affatto collaborativa gestione dell’inchiesta sulla morte del ricercatore italiano. Lo scorso agosto è stato concluso il contratto per la vendita all’Egitto delle fregate multiruolo – nona e decima Fremm della classe Bergamini – Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi, precedentemente destinate alla Marina militare italiana. Proprio la Spartaco Schergat, nel frattempo ribattezzata Al Galala, sarà consegnata alla Marina egiziana nei primi giorni del nuovo anno. L’equipaggio che la prenderà in consegna è da tre mesi in Italia per addestrarsi a manovrare sull’unità navale che sarà tra le più tecnologiche in giro per il Mediterraneo. Tanta corrispondenza d’amorosi sensi potrebbe aver suggerito al puparo al-Sisi, in vista delle festività natalizie, di donare un cadeau agli amici italiani mettendo in riga il pupo libico. Anche di questa ipotesi potremo avere riscontro in futuro. Se dall’Italia verrà steso un velo di silenzio sulla vicenda Regeni, sapremo a chi dire grazie per la liberazione dei pescatori mazaresi.

Tutti questi scenari riconducono alla domanda di fondo: è pensabile che una potenza economica e strategica qual è l’Italia si sia ridotta a farsi mediare da qualcuno per risolvere in ambito internazionale problemi a basso livello di difficoltà? Nella vita reale, perdita di sovranità si traduce in perdita del potere di decisione. Quando la via diplomatica diventa prassi della delega a player esterni per risolvere questioni di ordinaria amministrazione è segno che quel Paese smette di essere un’entità pienamente sovrana. Ce la siamo cavata settantacinque anni fa, a esito del Secondo conflitto mondiale, quando c’erano tutte le premesse perché divenissimo un luogo in perenne stato d’occupazione. Eppure, pur con tutte le limitazioni imposte dall’appartenenza al blocco Atlantico, i Governi che si sono succeduti da allora fino al primo decennio del nuovo secolo una soddisfacente autonomia sulla scena internazionale se la sono ritagliata. È da dieci anni a questa parte che siamo precipitati nel baratro. E il fatto che tale periodo sia coinciso con la presenza al potere della sinistra non può essere derubricato a caso fortuito. Ora che l’onore è stato perso a Bengasi, ci permettiamo un consiglio non richiesto al premier e al ministro degli Esteri: salvate almeno la faccia. Comprate tutte i fotogrammi e i video in circolazione che vi ritraggono proni al cospetto del tagliagole Khalifa Haftar e fateli sparire. Nondimeno, l’opposizione di destra pretenda, a nome del popolo italiano, di conoscere la verità su chi e come abbia condotto la trattativa per il rilascio dei pescatori. Fare chiarezza è il solo modo per provare a recuperare parte di quel prestigio che l’Italia s’è giocato, nella notte del primo settembre 2020, nella bisca di Bengasi.