di Giovanni Valentini

Al termine del primo incontro a Berlino con Romano Prodi, da poco nominato presidente del Consiglio nel ‘96, il Cancelliere tedesco Helmut Kohl – accompagnandolo all’elicottero – gli chiese con un filo d’ironia: “Chi viene la prossima volta?”.

L’aneddoto torna oggi d’attualità, di fronte alle tensioni che agitano la maggioranza giallorossa e insidiano la sopravvivenza dell’esecutivo.

Lo ha raccontato qualche tempo fa dallo stesso Prodi, ricorda Giovanni Valentini in questo articolo pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Esso ci riporta all’epoca in cui l’Italia cambiava in media un capo del governo all’anno, all’insegna dell’instabilità e della precarietà permanente.

Sotto il fuoco incrociato di Matteo Renzi e di Matteo Salvini che alimentano il “contagio dello scontento”. Quali gravi colpe ha commesso Giuseppe Conte per meritarsi un trattamento del genere? Perché rischia ora di passare per un dittatore o un tiranno, mentre Angela Merkel viene considerata una statista? Uscito sugli scudi dalla prima fase dell’epidemia; elogiato da mezzo mondo per come l’Italia ha affrontato la prima ondata del Covid-19; gratificato dal sostegno dell’opinione pubblica nazionale, in pochi mesi il presidente del Consiglio ha perso seguito e popolarità per i ritardi, le incertezze e gli errori che hanno preceduto la seconda ondata dell’epidemia.

A Conte il merito del Recovery Fund, perché una crisi? - A Conte va riconosciuto, tuttavia, il grande merito di aver ottenuto dall’Unione europea la quota maggiore del Recovery Fund, vale a dire 209 miliardi di euro (82 a fondo perduto e 127 di prestiti) che un governo sovranista verosimilmente non sarebbe riuscito a ottenere. E infine, stando ai sondaggi d’opinione, gode ancora di un largo consenso popolare sulla stretta anti-Covid, mentre Berlino e Londra hanno già decretato il lockdown totale per le prossime festività. Altrettanto dicasi per la controversa “cabina di regia” che dovrebbe monitorare la gestione di questi fondi, contro la quale il “partitino” di Renzi – attestato fra il 2 e il 3% – minaccia addirittura la crisi di governo, nonostante che il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, abbia dichiarato che la task force si farà in tutti i Paesi europei e che in alcuni di questi sia stata già costituita (Germania, Francia e Spagna).

Naturalmente, si può e si deve discutere sull’utilizzazione dei 196 miliardi previsti finora nel Recovery Plan italiano: a cominciare dai 34 assegnati al Sud in rapporto alla popolazione, ma ampiamente inferiori alle attese e alle legittime aspettative delle regioni meridionali, insufficienti per colmare o almeno ridurre il “gap” con quelle centro-settentrionali.

Insufficienti i fondi per il Sud - E magari, bisogna farlo nel modo più unitario, autorevole e propositivo possibile, senza intonare il consueto piagnisteo vetero-meridionalista: cioè rivendicando diritti piuttosto che piatendo elargizioni o accampando pretese. Né si riesce a comprendere come possa bastare una dotazione di appena 9 miliardi di euro per un sistema sanitario come il nostro, dissestato dai “tagli” degli ultimi dieci anni che hanno praticamente smobilitato l’assistenza territoriale di base e hanno spostato l’asse dal settore pubblico a quello privato.

Scelte condivisibili - Per il resto, appaiono condivisibili le tre scelte fondamentali del piano, in base alle linee guida fornite a tutti i partners dalla stessa Commissione europea: 74,3 miliardi per la transizione ecologica e il contrasto al riscaldamento globale; 48,7 per la digitalizzazione, anche se all’interno di questo stanziamento i 3,1 miliardi per la cultura e il turismo sono evidentemente un obolo; 27,7 miliardi per le infrastrutture dedicate alla mobilità sostenibile (alta velocità e manutenzione stradale). Seguono poi 19,2 miliardi per l’Istruzione e la ricerca; e infine, 17,1 miliardi per una “voce” – realisticamente troppo generica – che comprende la parità di genere e la coesione sociale e territoriale.

Ma come si giustifica una crisi di governo? - Possono giustificare queste scelte una crisi di governo in piena pandemia, quando la campagna per la vaccinazione di massa deve ancora iniziare? Si può correre il rischio in tali condizioni di andare in anticipo alle urne, come il Quirinale ha già paventato? E vale la pena mettere in crisi questo governo per sostituirlo con un eventuale Conte-ter, attraverso un rimpasto o un rimpastino? Francamente, speravamo che termini e pratiche della Prima Repubblica fossero ormai superate per sempre. Eccoci qua, invece, a discutere di poltrone e poltroncine, mentre continuiamo a registrare decine di migliaia di contagi e centinaia di vittime al giorno.

Questa è la differenza che passa fra la cosiddetta politique politicienne, la politica politicante più o meno strumentale, e la Politica con la “P” maiuscola, tesa alla realizzazione del bene comune. Fra l’esercizio del potere e l’arte di governare, come la intendeva il filosofo Platone nell’antica Grecia. Fra chi fa politica per interessi di parte e chi invece fa politica per cercare di migliorare la condizione dei cittadini.

L’Italia non può sprecare - Parafrasando il titolo di un recente saggio scritto per Laterza da Mariana Mazzucato, docente di Economia dell’innovazione e del valore pubblico presso l’University College London, consulente di vari governi e della stessa Commissione europea, bisogna dire in tutta coscienza che l’Italia non può permettersi il lusso di sprecare questa crisi. Ma, per evitare un tale pericolo, è necessario “plasmare – come scrive lei stessa – un tipo di capitalismo migliore”. Vale a dire un modello di sviluppo economico-sociale più equo e solidale, nell’ottica – appunto – della transizione ecologica e di quella digitale. La severa “lezione” del coronavirus impone a tutti noi di cambiare stile di vita, privilegiando l’interesse generale rispetto a quelli particolari.