di Renato Silvestre
Il 13 febbraio del 1861 cadeva l’ultimo caposaldo del Regno delle due Sicilie: la fortezza di Gaeta. Francesco II, l’ultimo re di casa Borbone, andava in esilio nel regno pontificio. La storia, è risaputo, la scrivono i vincitori perché, in quanto tali, acquisiscono, in regime di semi-monopolio, i mezzi economici e la via culturale per diffonderla.
Tuttavia la storia vera, quella revisionata dopo decenni, restituisce ai personaggi la luce della verità - ancorché questa non possa più recuperare le diffuse opinioni popolari e la vulgata che i vincitori hanno proposto alle masse. Col tempo, la vera storia fa  emergere aspetti e circostanze poco note, fino a farle esorbitare dalla ristretta cerchia degli studiosi. È questo, appunto, il caso della vicenda risorgimentale italiana ed in particolare dell’annessione forzata dei territori del Sud alla corona sabauda.
Ormai quasi tutti gli storici concordano nel definire la cosiddetta “impresa dei Mille” come un atto proditorio compiuto dal Piemonte in danno di uno stato sovrano, quello delle due Sicilie, con la complicità di un paese “straniero”: l’Inghilterra. La stessa figura di Francesco II di Borbone, per il popolo “Franceschiello”, ne esce rivalutata come distante dalla caricatura che i sabaudi ne fecero di uomo imbelle ed inetto, sovrano di un regno corrotto ed arretrato. Un’immagine deteriore, quella dell’ultimo Borbone, che ha fortemente alimentato pregiudizi e preconcetti nei confronti dei meridionali. Francesco II invece dimostrò cuore e coraggio, dignità ed umanità in quei mesi di assedio e cannonate dell’esercito sabaudo, guidato dal generale Cialdini che, come avverrà in seguito in molti altri luoghi del Sud Italia, mostrò la ferocia del conquistatore, non certo la magnanimità del fratello italiano.
Una storia tutta falsa ha alimentato, negli anni, sentimenti di ostracismo e di diffidenza nei confronti del Mezzogiorno e dei meridionali in generale. La Lega di Umberto Bossi ha rappresentato la sintesi politico sociale di questa malmostosa mentalità che successivamente si sarebbe trasferita dai meridionali agli immigrati.
Oggi quel movimento, guidato da Matteo Salvini, è entrato, con mossa abile e repentina, in un governo, insieme a partiti come il Pd e Leu, da sempre ritenuti avversari, “meridionalisti” ed aperti all’accoglienza dei migranti. Fanno eccezione i grillini che ormai hanno superato ogni previsione logica e politica, facendo impallidire i maneggioni ed i forchettoni di ogni epoca passata.
Dal governo gialloverde con il Carroccio a quello giallorosso con i dem, fino al governo giallo-rosso-verde con tutti dentro, i 5Stelle ci sono sempre stati, alla faccia della coerenza! Mario Draghi è riuscito nell’impresa storica di azzerare tutte le divisioni ideologiche, inserendo, nei dicasteri, rappresentanti di tutti i partiti politici (con la simpatia esterna di Giorgia Meloni). Eppure, il suo, non è un governo tecnico: a ben vedere, infatti, nell’esecutivo i politici sono il doppio dei tecnici ed il manuale Cencelli ha avuto il suo peso nel determinare i dosaggi ministeriali.
In ogni caso c’è da chiedersi da cosa abbia avuto origine questo miracolo di unanime convergenza: dall’autorevolezza di Draghi? Dalla necessità di offrire garanzie all’Europa che ci sostiene economicamente col Recovery Fund? Dalla scarsa vocazione ad affrontare le urne in periodo di pandemia e vaccinazioni? Certamente affermativa la risposta. Ma sarebbe un’immane ipocrisia tacere della cospicua torta di oltre 200 miliardi di euro da spendere per il rilancio dell’economia e per la riforma del sistema statale.
Se è vero che in politica il danaro è necessario come le armi in guerra, se è vero che la leva della spesa statale è alla base del consenso politico clientelare, nessuno ha voluto privarsi degli strumenti di crescita politica in una prospettiva così allettante.
Ora, tra corsi e ricorsi storici, ci sembra quasi di essere tornati ai fatti del 1861, a quel clima pseudo-patriottardo che si respirava allora e di cui sembrano impregnati gli accorati appelli all’unità lanciati, oggi, dal Capo dello Stato.
Anche allora, a disposizione dei conquistatori di casa Savoia, c’erano da spartirsi le centinaia di milioni in monete d’oro custodite nei forzieri del ricco regno di Franceschiello: manna piovuta dal cielo per le esangui risorse di Vittorio Emanuele II. Ancora una volta, dunque, gli interessi più spiccioli hanno avuto il sopravvento sulla diversità delle culture politiche e sulle diversità di programma.
Ebbe ragione il grande poeta  napoletano Ferdinando Russo che nel poema dedicato agli eventi di Gaeta, esaltò le virtù degli sconfitti, i quali combattevano per amore di patria, non per  venali interessi. La storia narra di un soldato reduce che ricevette, come tutti, una medaglia commemorativa da Re Francesco. La conservò gelosamente ma senza volerla  mai esibire, per personale decoro, sulla livrea della “pezzenteria”.
Renato Silvestre
(Amici di scuola Istituto La Salle Materdei Napoli)

“Francesco II” ultimo re delle Due Sicilie

"27 dicembre 1894: l’ultimo sovrano delle Due Sicilie si congeda dalla scena del mondo in punta di piedi, con lo stesso stile sobrio e dignitoso con cui aveva vissuto.

Nel suo testamento, Francesco II di Borbone aveva scritto: “Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto”.

Così scrive la prof. Mariolina Spadaro, ricercatrice presso dell’Università Federico II di Napoli, che ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola.

"La Discussione di Napoli, nel riportarne la notizia, commentava: “Con l’anima serena dell’uomo giusto, con gli occhi estaticamente rivolti alla visione di quel sereno cielo che lo vide nascere, è morto il Re adorato, alle porte dell’Italia, in un modesto albergo, situato in una regione non sua...”.

Matilde Serao, in un articolo apparso su Il Mattino del 29 dicembre, scrisse: “Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco II. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone”.

Ad Arco di Trento, l’ultimo discendente di una delle monarchie più potenti d’Europa aveva vissuto gli ultimi anni della sua breve vita, in perfetta umiltà e dignitoso anonimato.

Fu l’ultimo Re, disse l’Italia intera; ed il cordoglio per la morte prematura di un sovrano tanto nobile, leale e generoso, fu sincero, quanto tardivo il riconoscimento del suo alto profilo morale.

Ma chi era davvero Francesco II?

La storia ci ha abituati a conoscerlo come “Franceschiello”, un epiteto dispregiativo per sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato: l’ultimo Re delle Due Sicilie era stato capace, in meno di un anno, di perdere regno e ricchezze, combattendo dalla parte sbagliata. Perché è sempre sbagliato stare dalla parte di chi perde, quando la storia la scrivono i vincitori. E Francesco, pur consapevole della fine imminente, non si era voluto piegare a nessun compromesso. Perciò, aveva perso. Non aveva cercato facili alleanze: avrebbe potuto salvare almeno se stesso, conservare le fortune personali, ereditate dagli avi o, persino, usare quelle ricchezze (che nessun altro Stato italiano poteva vantare di possedere in tale quantità) per corrompere quanti, nell’ora più difficile del Regno, preferirono abdicare alla propria dignità, barattando la patria napoletana con l’oro piemontese e massonico.

Invece Francesco II non abdicò mai al ruolo che la Provvidenza gli aveva assegnato: morì da Re, assolvendo fino alla fine il suo compito, con coraggio e dignità.

In Francesco II la Provvidenza e la fede, la regalità e Cristo, l’umiltà e la povertà di San Francesco si intrecciano e convergono in unità, indicando che il vero significato dell’essere Re è nell’abbraccio di Cristo che muore crocifisso, in mezzo a due ladroni. Per paradossale che possa sembrare, è proprio allora che Cristo mostra la sua regalità, esaltata dal ladrone, che proprio a causa di quell’abbraccio lo riconosce, sentendosi da Lui “comprehensum”, sposato, da quel sovrano che lo ama fino a sacrificare se stesso.

E Francesco II quale modello di regalità ha abbracciato? Quello della competizione o quello della comprensione? È stato un sovrano ambizioso, che ha pensato ad accrescere il proprio potere, oppure è stato un sovrano che ha anteposto ai suoi interessi personali l’amore per il suo popolo?

La breve ma intensa vita di soldato e di re, di Francesco II di Borbone appare, in verità, come un continuo e cosciente conformarsi all’unico modello di regalità che la sua profonda religiosità cristiana poteva proporgli di imitare. Il Re Francesco II si sentiva, ed era effettivamente, “sposo” del suo popolo, che amò fino alla fine della sua vita, ben oltre la perdita del trono e la fine del Regno.

È lecito dubitare dell’amore dei sovrani per i loro popoli quando vi siano interessi materiali da salvaguardare, quando c’è ancora la speranza di recuperare un trono perduto; ma Francesco già da tempo non nutriva più di queste speranze e, specialmente dopo la definitiva partenza da Roma, aveva pure rinunciato a vedersi restituiti i suoi beni. Eppure, non aveva mai cessato di amare i napoletani. E i napoletani non cessarono mai di amarlo. Non, certamente, i generali che lo avevano tradito; non quegli aristocratici la cui bramosia di ricchezze e di potere si era lasciata stuzzicare dalle astute lusinghe degli avversari (eppure, anche a costoro seppe perdonare); ma il popolo, il suo popolo, lo amava davvero perché si sentiva profondamente amato da lui: “sposato”, abbracciato, “comprehensum”.

Suo padre, Ferdinando II, aveva regnato per oltre trent’anni, trasformando il Regno delle Due Sicilie in uno degli Stati più ricchi e potenti d’Europa. Era un’eredità pesante, che Francesco dovette assumersi inaspettatamente e che si trovò a gestire da solo, quando stava per avere inizio la fase più difficile della storia del Sud. Gli avvenimenti, che si susseguirono in maniera travolgente, precipitarono la dinastia e mutarono la storia del popolo.

Di Francesco II la storiografia in verità, non se n’è quasi mai occupata, se non in modo apparentemente distratto, e, quando lo ha fatto, ha descritto la figura di un uomo scialbo; l’iconografia lo presenta come un giovane dall’aspetto impacciato, le spalle strette, gli occhi tristi, l’espressione tra il timido ed il corrucciato; insomma, il ritratto perfetto dell’anti-eroe. Ed anche nella storiografia più recente, il re–soldato, che combatte sugli spalti di Gaeta, vi appare quasi trascinato, più che dalla sua convinzione personale, dall’entusiasmo incosciente e, talvolta, imprudente, della giovane moglie Maria Sofia di Baviera, riconosciuta “eroina di Gaeta”.

Restano poco noti, invece, il suo ricchissimo epistolario, il suo diario privato, le memorie di chi visse accanto a lui gli ultimi istanti della sua vita. Da essi emerge una figura di re il cui profilo morale, umano, intellettuale e cristiano è altissimo e rigoroso: un ritratto assolutamente stridente con quello ufficiale consegnatoci dalla storia che, persino nel nomignolo con cui lo identifica, “Franceschiello”, ha voluto imprimere nella memoria collettiva l’immagine del perdente, del non – Re, rappresentandone una regalità in negativo, in cui non trovano spazio concetti come “potere” e “trionfo” e non c’è posto neanche per la “competizione” richiesta dai modelli considerati vincenti.

Troppo spesso la storia esalta come eroi personaggi mediocri, il cui merito è quello di essere saliti in tempo sul carro del vincitore o di avere agito con cinico egoismo e per puro calcolo materiale o rinnegando valori morali e princìpi religiosi in nome di presunti ideali.

La vicenda garibaldina e l’intera operazione con la quale fu realizzata l’unificazione italiana necessitano ancora oggi di una rilettura che ne chiarisca, una volta per tutte, natura e contenuti. Non è più possibile, di fronte all’evidenza documentale, continuare ad accettare la “vulgata” ufficialmente imposta nei manuali scolastici, attraverso i quali specialmente si dovevano “fare gli Italiani”. Troppe contraddizioni balzano in evidenza, troppe smentite dei fatti così come ci sono stati raccontati, troppi elementi di un’altra storia ci rivelano una verità diversa da quella conosciuta finora, che è doveroso portare alla luce e diffondere. È quella storia, che oggi non è più possibile accettare supinamente, che ci ha consegnato la figura di un “Franceschiello” codardo, pavido, inetto: il ritratto caricaturale di un Re.

Chi era, in realtà, l’ultimo sovrano delle Due Sicilie?

Il 5 settembre 1860, in procinto di partire per Gaeta, volendo risparmiare alla capitale atroci combattimenti (l’entrata di Garibaldi in città era imminente), pronunciava parole gravi, denunciando al cospetto dell’Europa, che rimase sorda alle evidenti violazioni del diritto internazionale ai danni dei popoli delle due Sicilie: “una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee”.

Il Re denunciava, con una chiarezza e lucidità che pochi, in quel momento, mostrarono di avere, i disegni della setta rivoluzionaria che stava impadronendosi dei suoi Stati, ma che presto avrebbe minacciato l’intera Europa; scriveva ai rappresentanti delle potenze europee di come il Piemonte, che “sconfessava” pubblicamente l’azione garibaldina, segretamente, invece, la incoraggiava e la sosteneva. E paventava il pericolo che la violazione delle norme più elementari del diritto internazionale, che ora stava danneggiando il suo Regno, avrebbe finito per imporre il principio di autolegittimazione dei governi, spianando la strada a regimi basati sulla forza e sulla violenza, anziché sul consenso dei popoli.

Fu fin troppo facile profeta: totalitarismi e massacri avrebbero trasformato l’Europa del secolo successivo in un immenso teatro di violenza e di guerre. Nessuno sembrava, in quel momento, rendersene conto quanto lui: “questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato ... L’Europa non può riconoscere il blocco decretato da un potere illegittimo ... L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo... Ma l’Europa stava a guardare.

Francesco II, invece, combatteva contro questo nuovo modo di fare la guerra: sul Volturno, a Gaeta, sul fronte della diplomazia. Combatteva e protestava instancabilmente, pur nella crescente consapevolezza di non poter salvare se non l’onore; combatteva a fianco dei suoi soldati, per il popolo che aveva “sposato” e che non lo abbandonava, perché “fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni; ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso quale si addice al discendente di tanti Monarchi”.

Lucidamente consapevole della sconfitta, non fece nulla per sottrarsi al suo dovere di Re, raccomandando ai suoi popoli “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini” anche quando l’esito gli fu fatale.

Lasciando Napoli, Francesco II non portò nulla con sé. Il 12 settembre, appena una settimana dopo la sua partenza verso Gaeta (il Regno delle Due Sicilie era, dunque, ancora formalmente uno Stato legittimo riconosciuto dalle potenze europee), i suoi beni venivano dichiarati da Garibaldi “beni nazionali”; e quando, succeduto Vittorio Emanuele, si discusse se rendere a Francesco i suoi beni privati, una tale eventualità fu condizionata alla sua partenza da Roma, dov’era ospite del Papa. Lo si voleva allontanare il più possibile da Napoli, perché la sua sola prossimità al Regno era sufficiente a tenere alto il morale di chi combatteva per l’indipendenza della patria. Francesco non accettò: non poteva consentire alcuna strumentalizzazione della sua persona facendone ricadere su di lui la responsabilità dei massacri, che l’esercito piemontese stava attuando nel tentativo di piegare la resistenza dei napoletani. Perché di “Napolitani” si trattava - come sottolineava con forza il Re - e non di “briganti” ed “assassini”, come invece li dipingeva la propaganda; napoletani come lui, e, come lui, “disgraziati che difendono in una lotta ineguale l’indipendenza della loro patria ed i diritti della loro legittima dinastia”. Di quei “briganti”, ad ogni modo, se tale era la loro identità, lui, il Re, si reputava onorato di esserne il primo. Ed avendo, d’altra parte, perduto un trono, che gli importava di perdere le ricchezze? “Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me: ed ai miei occhi il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza”: queste le parole con le quali respinse il “consiglio” di Napoleone III di allontanarsi da Roma. Non riebbe più i suoi beni, che furono distribuiti, in barba a Statuti e “proteste”, ai “martiri” dell’unità d’Italia,

Francesco, Re - Sposo dei suoi popoli, invece non cessò mai di preoccuparsi delle loro necessità, nella buona come nella cattiva sorte: l’11 gennaio 1862 riusciva ad inviare la somma di 800 scudi all’Arcivescovo di Napoli Riario Sforza, per venire in soccorso della popolazione di Torre del Greco, colpita dal terremoto. “Tutte le lagrime dei miei sudditi – scriveva in quell’occasione – ricadono sopra il mio cuore, e non mi sovviene della mia povertà che allora soltanto che, in simili circostanze, m’impedisce di fare tutto quel bene, al quale mi sento per natura trasportato... Sovrano esiliato, non posso slanciarmi in mezzo a’miei figli per alleviarne i mali. La potenza del Re delle Due Sicilie è paralizzata, e le sue risorse son quelle di un sovrano decaduto che non ha trasportato seco, lungi dal suolo ove riposano i suoi antenati, che l’imperituro amore per la patria assente. Ma comunque grande sia la mia catastrofe e meschine le mie risorse, io sono Re, e come tale io debbo l’ultima goccia del sangue mio e l’ultimo scudo che mi resta ai popoli miei”.

Anche sugli spalti di Gaeta, quando tutto era ormai perduto, questo Re non aveva avuto altro pensiero che quello di consolare i suoi popoli nelle sventure comuni. Sempre fiducioso nella Provvidenza, le sue parole non furono mai di cupa rassegnazione, ma sempre vibranti di passione interamente napoletana: “Ho combattuto non già per me, ma per onore del nostro nome... io sono napolitano; nato in mezzo a voi non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie”.

Orgoglioso della sua “napoletanità” e dell’appartenenza ad una dinastia che, da oltre cento anni, regnava pacificamente su quei territori, ai quali aveva restituito indipendenza ed autonomia, Francesco rivendicava la legittimità del trono: “non mi ci sono installato dopo avere spogliato gli orfanelli del loro patrimonio, né la Chiesa dei suoi beni; né forza straniera mi ha messo in possesso della più bella parte d’Italia. Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità...”

Pace, concordia, prosperità: erano questi i beni che voleva per i suoi popoli. Perfettamente a conoscenza di tradimenti e cospirazioni, aveva voluto evitare spargimenti di sangue: questa sua scelta, che ostinatamente difendeva, gli aveva procurato – egli mostrava di esserne profondamente consapevole – accuse di inettitudine e debolezza. Ma preferiva queste accuse ai trionfi degli avversari, ottenuti con il sangue e la violenza. Cinismo, tradimenti e spergiuri sembravano sempre più fare parte dei moderni codici militari, ma a Francesco continuavano ad essere cari gli antichi codici della cavalleria, che riposavano sulla sacralità del giuramento, sulla fedeltà alla parola data, specie se parola di Re. Per questo non aveva potuto credere che il re del Piemonte “che protestava di disapprovare l’invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per il vero interesse dell’Italia”, avrebbe violato tutti i trattati e calpestate le leggi, invadendo il regno delle Due Sicilie senza neanche una dichiarazione di guerra.

Ma alla tracotanza del nemico si poteva rispondere solo rimanendo uniti nella concordia, intorno al trono dei propri antenati, superando antiche divisioni (il discorso riguardava specialmente i siciliani): “il passato non sia mai un pretesto di vendetta, ma un avvertimento salutare per l’avvenire”

Occorreva avere fiducia, ancora una volta, nella Provvidenza divina ed accettarne, comunque, i disegni, profondi ed imperscrutabili; ma nessuno – e specialmente il Re - poteva sottrarsi al proprio dovere: “Difensore dell’indipendenza della patria, resto a combattere qui per non abbandonare un deposito così caro e così santo. Se ne ritornerà l’autorità ed il potere nelle mie mani, me ne servirò per proteggere tutti i miei diritti, rispettare tutte le proprietà, salvaguardare le persone ed i beni dei sudditi miei contro ogni oppressione e depredamento. Se poi la Provvidenza nei suoi profondi disegni decreta che l’ultimo baluardo della monarchia cada sotto i colpi di un nemico straniero, io mi ritirerò con la coscienza senza rimproveri e con una risoluzione immutabile, ed attendendo l’ora della giustizia, farò i voti più ferventi per la prosperità della mia patria e per la felicità di questi popoli che formano la più grande e la più cara parte della mia famiglia”.

L’esilio vissuto negli ultimi anni ad Arco, senza più speranza di recuperare trono ed averi personali, non cancellò la validità di questo “patto”: bastava essere napoletano per essere ricevuto da lui e furono tanti coloro che ebbero modo di incontrarlo. A tutti chiedeva notizie della sua Napoli, senza che mai alcuna parola di biasimo per i nuovi regnanti e governanti uscisse dalla sua bocca. Così come non voleva che si parlasse delle sue passate vicende, della sua vita di Re: le considerava un sogno del passato, che ormai si era dissolto. Aveva conservato il titolo di Duca di Castro, ma tutti ad Arco lo conoscevano come “il signor Fabiani”.

Fu solo dopo la sua morte che gli abitanti della cittadina trentina scoprirono la vera identità di quel gentiluomo che, tutte le mattine, sedeva al bar a fare colazione ed a leggere i giornali, dopo avere ascoltato la Messa, ed ogni sera, puntuale, si recava per la recita del Santo Rosario presso la Chiesa della Collegiata.

Francesco II lascia nella storia un nome, che le iniquità e le calunnie non possono oscurare.

I doveri di sovrano, che egli seppe compiere cristianamente, i doveri di soldato valoroso nell’eroica difesa di Gaeta, i suoi proclami e le note diplomatiche indirizzate ai monarchi di

Europa durante i tristi momenti della sua caduta, dimostrano ai posteri tutto il suo valore ed indicano un modello di regalità che non evoca immagini di potenza e di gloria ed invita, piuttosto, a riflettere sulla nobiltà della politica: concetto, oggi, purtroppo, estraneo alla nostra esperienza, perché caduto progressivamente in desuetudine, ma che dovremmo sforzarci di recuperare.."

 

Francischiello "Santo"...

Francesco II di Borbone santo, l’annuncio del cardinale Crescenzio Sepe è arrivato a dicembre dello scorso anno nelle ore del suo congedo da arcivescovo di Napoli: “I vescovi della Campania presenteranno due candidati alla santità e uno è Francesco II di Borbone, un re”. Ossia la prova che “Dio interviene nella storia della nostra città e della nostra regione”.