I Recovery Plan, il piano che dovrebbe “rilanciare” l’economia italiana, consiste in un macro-finanziamento, da parte dell’Unione europea, di oltre 200 miliardi di euro di cui la maggior parte sotto forma di prestiti. La fetta più grossa del finanziamento andrà alla transizione ecologica, la bandiera del rilancio, alla quale è stato intitolato un ministero. Seguono interventi come digitalizzazione, cultura, infrastrutture, istruzione, ricerca, parità di genere e altri interventi di contorno. Come già accennato in un precedente articolo, il destino di questo grande stimolo sarà quello dell’acqua versata in un catino pieno di buchi: lo spreco. Non è difficile capirlo: la pandemia ha consegnato un Paese già in agonia nelle mani della politica, la cui natura è quella di fare crescere il proprio potere, non l’economia. La crescita dell’economia è conseguenza solo di investimenti privati, attuati in un contesto di libero mercato. Vediamo di approfondire. In essenza, l’economia di un Paese si basa su due variabili: popolazione e produttività. Puoi avere più persone che fanno più cose. Oppure puoi avere la stessa quantità di persone che fanno più cose a costi minori, cioè innovando. È questa combinazione che innesca la crescita. Spieghiamoci meglio. La parte di popolazione chiamata classe media fornisce la forza lavoro, che guida la produzione e forma il pool stabile di consumatori necessari per consumare abbastanza da assorbire la produzione di beni e servizi creando la redditività per le imprese. Questa parte di popolazione è il nucleo stabilizzatore che crea una economia di mercato. Se la classe media si contrae o scende troppo in basso e non può consumare abbastanza per sostenere le proprie famiglie e la produzione nel suo complesso, gli investimenti si esauriscono e la produzione cessa. Senza questa popolazione stabile e dominante, l’economia di mercato regredisce tendendo a quella di tipo feudale. È ciò che sta accadendo in Italia. La seconda variabile, la produttività, è la differenza tra il valore della produzione e quello dei fattori della produzione impiegati per ottenerla. Se la differenza è positiva e il valore della produzione eccede quello della ricostituzione dei fattori impiegati, la ricchezza netta aumenta. Il sistema economico cresce solo con tale surplus che alimenta occupazione, monte salari e nuovi investimenti, elevando pertanto gli standard di vita. Altrimenti il sistema esige un debito che, diventando permanente, soffoca l’economia abbassando gli standard di vita. Anche questo è accaduto in Italia. E poiché una malattia attacca i deboli più ferocemente, la pandemia ha fatto scivolare il Paese in una crisi profonda. Ora, valutando il Recovery plan dal punto di vista delle due componenti della crescita, popolazione e produttività, si deduce che la situazione del Paese, invece di migliorare, peggiorerà. Consideriamo ad esempio la produttività degli interventi in infrastrutture digitali, sanitarie, ricerca, formazione, equità e di tutte le altre frattaglie. Queste voci sono in grado di creare ricchezza netta per autofinanziarsi e ripagarsi i relativi debiti? Assolutamente no, poiché rappresentano, nella migliore delle ipotesi, costi a supporto delle vere attività generatrici di reddito. È come per il costo di un capannone industriale: la ricchezza dell’impresa non è generata da questa infrastruttura ma dalla vendita dei prodotti in cui vengono fabbricati. Il denaro, per finanziarle, deve dunque provenire dalle vere attività produttrice di reddito: gli investimenti privati. Ma sono proprio questi a mancare nel Paese! E mancano perché la popolazione produttrice è stata devastata da tasse e da politiche sanitarie. Ora la maggioranza si illude che la creazione di ricchezza possa provenire dagli investimenti di bandiera, quelli che incorporano gli obiettivi dell’Agenda 2030, quell’agenda verde che, come ripetono i pappagalli, dovrebbe accelerare la transizione verso “un’economia più sostenibile, equa, giusta e resiliente” che significa abbattimento delle industrie basate sui combustibili fossili e loro sostituzione con quelli basati sull’energia rinnovabile. Vediamo se questi investimenti hanno i requisiti della crescita. L'energia è il fondamento dell’economia. Senza energia, saremmo come in un deserto dove finanziamenti a iosa sarebbero inutili, perché non potrebbero comprare ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. Senza acqua, cibo e mezzi di trasporto da acquistare moriremmo. Il punto è che il denaro è prezioso solo se gli elementi essenziali della vita sono disponibili a prezzi accessibili: un’economia in crescita dipende, in ultima analisi, proprio da una continua abbondanza di energia a prezzi bassi. Ma l’energia verde non ha prezzi accessibili, altrimenti, non sarebbe stata prodotta finora senza sovvenzioni. L’energia verde è anti-economica in quanto richiede l’impiego di più fattori di produzione, per produrre solo una frazione di energia di impianti tradizionali. Dunque, il risultato è l’aumento dei costi medi di produzione proporzionali all’aumento di dimensioni della capacità produttiva, fenomeno, questo, chiamato “diseconomia di scala”. È la natura discontinua della tecnologia solare e del vento a rendere impossibili le economie di scala. Da qui le sovvenzioni per compensare la caduta di rendimenti. L’economia verde può aver senso solo in nicchie di mercato, non in quelli di massa. Ora, lo scopo dell’energia è di accrescere la produttività umana non di ridurla. Standard di vita e potere d’acquisto si elevano se la produttività aumenta più velocemente dei costi. Ma finanziando energia antieconomica, avviene il contrario con la conseguenza di ridurre la produttività, cioè la ricchezza netta rendendo impossibile l’estinzione del debito contratto per avviare la transizione ecologica. Non solo: la popolazione occupata diminuirà, poiché quella in aumento nei settori “verdi” non compenserà quella eliminata nei settori smantellati. L’occupazione crescerà solo nella burocrazia “ambientalista” peggiorando l’improduttività complessiva. Salendo sul carro delle rinnovabili, l’Italia, per evitare l’emergenza, dovrà importare energia sempre più scarsa a prezzi crescenti, salutando per sempre il rilancio promesso e celebrato da un Recovery plan che, invece, era la strada della deindustrializzazione irreversibile.

GERARDO COCO