A Napoli, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1848, i liberali che non avevano preso la via dell'esilio avevano dovuto subire la dura repressione borbonica, sicché i margini per l'attività politica erano assai ristretti. Molti esuli avevano interrotto i rapporti, spesso anche dal punto di vista affettivo, con una patria da cui erano stati cacciati. A volte il risentimento li portava a esprimere nei suoi confronti giudizi particolarmente duri, come nel caso di Giuseppe Massari, che in più di un'occasione descrisse ai suoi amici piemontesi Napoli e i napoletani con disprezzo, mettendo in guardia dai pericoli che da un ambiente così «corrotto» potevano nascere per il resto dell'Italia.

Molti esuli napoletani erano stati accolti negli stessi salotti torinesi frequentati da Cavour e non è improbabile che l'immagine negativa del Mezzogiorno che essi proponevano abbia in qualche modo influenzato i circoli politici moderati nel favorire la nascita di uno stato d'animo non ben disposto nei confronti dei meridionali, che si rafforzò quando l'incalzare degli avvenimenti creò aspettative, rimaste disattese, sulla partecipazione attiva del Sud al processo di unificazione.

Fino a tutto il 1859 Cavour non pensava affatto che questo processo potesse estendersi anche al Mezzogiorno. Fu soltanto la decisione dei democratici di allargare il movimento all'Italia meridionale a fargli modificare il suo atteggiamento iniziale, preoccupato com'era di lasciare l'iniziativa in mano ai suoi avversari politici. Spinto da questo timore, Cavour decise di inviare a Napoli, nel gennaio del 1860, il marchese di Villamarina, nella veste ufficiale di rappresentante del regno di Sardegna presso la Corte borbonica, ma con lo scopo reale di indagare in segreto, come suo uomo di fiducia, sull'ambiente politico napoletano: gli interessava decifrare gli orientamenti politici dei napoletani e conoscerne la disponibilità a collaborare col movimento nazionale italiano.

Fino ad allora i rapporti tra i due regni erano stati molto scarsi, né Cavour aveva una grande stima per i Borboni, soprattutto da quando la repressione messa in atto dopo il 1848 aveva spinto William Gladstone a condannare pubblicamente la dura politica adottata dalla monarchia napoletana nei confronti dei liberali. Egli perciò non si sorprese delle impressioni totalmente negative che Villamarina gli comunicò poco dopo il suo arrivo a Napoli. Nel rapido e superficiale quadro della società napoletana che descrisse in una delle numerose lettere inviate a Cavour il marchese non salvava nessuno: né la nobiltà, «inetta o sanfedista», né la massa, «stupida e brutale», né il « terzo stato», che, tranne qualche rara eccezione, era «di natura paurosa, senza alcuna energia».

A Cavour dunque fin dai primi momenti fu delineata un'immagine non confortante della situazione e delle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare per allargare il processo unitario all'Italia meridionale. Il dato meno rassicurante proveniva dall'apparente scarsa propensione ad agire dei napoletani; questa impressione fu confermata dalle relazioni inviate a Cavour dagli altri uomini mandati a Napoli per arricchire e completare le informazioni di Villamarina. Alcuni misero in rilievo anche la scarsa preparazione politica dei napoletani, ma l'indicazione più preoccupante era la spiegazione che ne veniva data: l'incapacità di prendere parte attiva al movimento nazionale era, infatti, ricondotta ai fattori antropologici, all'«indole» stessa dei napoletani.

Un'indole apatica, passiva, instabile: da questo giudizio prese corpo progressivamente il timore che l'estensione del processo unitario all'Italia meridionale avrebbe potuto mettere a rischio il suo stesso esito, non solo per la scarsa partecipazione dei napoletani ma anche perché unire popoli così diversi tra loro avrebbe potuto costituire un elemento di debolezza dell'Italia che si voleva costruire. Certo, la preoccupazione che la sottolineatura delle differenze potesse raffreddare gli entusiasmi e rallentare il compimento dell'opera di unificazione spinse Cavour e i suoi collaboratori a non esprimere in pubblico la loro percezione negativa di una realtà politica e sociale tanto diversa dalle aspettative. Essa, infatti, non affiorò nelle discussioni parlamentari che sancirono l'annessione delle province meridionali al regno d'Italia.

Quegli stessi uomini però manifestarono apertamente tutta la loro grande delusione negli scambi epistolari assai intensi che ebbero in quei mesi e che, se servirono a dare informazioni indispensabili sulle popolazioni meridionali, diffusero anche all'interno della classe dirigente un'immagine fortemente negativa del Sud, di cui l'«indole» della popolazione diventò subito l'elemento caratterizzante.

Coloro che furono inviati a Napoli con compiti di governo e di amministrazione delle nuove province prima della proclamazione del regno d'Italia attribuirono ai napoletani la colpa delle difficoltà che incontravano nel gestire la transizione. Il caso più noto è quello dell'emiliano Luigi Carlo Farini, uomo politico moderato vicino a Cavour e primo Luogotenente generale delle province meridionali tra la fine di ottobre 1860 e il gennaio 1861. Ancora prima di arrivare a Napoli, dopo aver attraversato soltanto due province, Farini comunicò a Cavour le prime impressioni del viaggio e la scoperta che stava facendo: «Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile».

Per una singolare ma rivelatrice ironia della storia, Farini scrisse a Cavour quelle frasi così cariche di delusione e di scoraggiamento proprio da Teano il 27 ottobre 1860, il giorno successivo all'incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, in cui il liberatore dell'Italia meridionale aveva consegnato simbolicamente il frutto dell'eroismo dei suoi Mille al futuro re d'Italia. Forse non è inutile sottolineare quanto questa singolare coincidenza rimarchi ancora di più il netto contrasto tra la visione mitica del Risorgimento, così come per molti anni è stata tramandata dalla storiografia patriottica dell'Italia unita, e la concreta realtà storica.

I giudizi di chi avvertiva la difficoltà quotidiana di governare una popolazione ben presto definita «ingovernabile» si arricchirono col passar del tempo di notazioni che, pur articolandosi maggiormente rispetto alle rappresentazioni iniziali, ne accentuarono gli elementi negativi, ponendo le basi di quello che in breve tempo sarebbe diventato lo stereotipo del meridionale pigro, corrotto e vile, e del Mezzogiorno «cancrena» dell'Italia. A loro volta, le impressioni, i racconti, i contatti spesso superficiali e assai rapidi, che avevano costituito il modo principale attraverso il quale si era realizzato l'incontro tra settentrionali e meridionali, diedero origine a una serie di comportamenti quotidiani e di provvedimenti legislativi che modificarono radicalmente e in brevissimo tempo i sentimenti di entusiasmo e di sostegno con cui la popolazione napoletana aveva accolto i garibaldini.

Nel giro di qualche mese i «fratelli del settentrione» si trasformarono da liberatori in conquistatori e si diffuse inizialmente a Napoli e poi anche nelle province dell'ex-regno delle Due Sicilie un malcontento che si trasformò in molti casi in delusione e talora anche in risentimento e contribuì a far riaffiorare anche in molti liberali moderati che avevano aderito agli ideali unitari italiani il sentimento di una identità napoletana, da mantenere in vita anche nella nuova entità statale. L'atteggiamento sprezzante adottato dai settentrionali inviati al Sud, e che fu rilevato e criticato anche da chi, tra essi, lo condivideva ma era tuttavia preoccupato per le conseguenze negative che una sua aperta manifestazione avrebbe potuto avere per la comune costruzione di una coscienza nazionale, ebbe così, come inevitabile effetto, quello di rendere quest'opera assai più lunga e difficile del previsto.

Sulla base del reciproco sentimento di delusione provato dai settentrionali e dai meridionali prese dunque forma fin dalle primissime fasi della vita della nazione una «questione meridionale». Certo, questa espressione non può avere per quegli anni la stessa pregnanza che avrà più tardi, quando assumerà la sua forma e il suo significato classici, ma già tra il 1860 e il 1861 se ne posero i presupposti, almeno a livello di atteggiamenti mentali.