Di Susanna Schimperna

 

Fino a quel momento, del battello a vapore salpato alle 12.55 del 4 marzo dal molo dell’Arsenale della Real Marina, Palermo, e scomparso nella notte seguente, si pensava non si fosse salvato nulla, né oggetti di carico – trasportava 232 tonnellate di merce –, né un qualunque pezzo dell’imbarcazione, né una sola persona delle 78 a bordo. Naufragato al largo di Capri, l’Ercole era letteralmente svanito, scomparso, e il mare non aveva restituito nulla. Come non fosse mai esistito.

Mistero nel mistero, neppure dell’uomo scampato di cui parlava Omnibus si seppe più nulla. Una falsa informazione, un’invenzione giornalistica per parlare ancora di un evento che aveva suscitato grande impressione sull’opinione pubblica, o forse un altro mistero nel mistero, una persona che era stata convinta a tacere?

Perché di misteri e sospetti intorno a quel naufragio ce n’erano molti. Tanto che vent’anni dopo un’inchiesta cercherà di appurare se bordo potesse esserci stata una bomba a orologeria. Ipotesi mai confermata, naturalmente, vista l’assenza di un qualunque materiale da esaminare.

Nel libro Il prato in fondo al mare, con cui Stanislao Nievo vinse il Campiello nel 1975, la tragedia trova la sua spiegazione in un sabotaggio deciso dalla Destra governativa per liquidare la Sinistra garibaldina, praticamente una strage di Stato, quella, come scrisse Cesare Garboli nella prefazione al romanzo «con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita».

Stanislao aveva passato molto tempo a documentarsi, cercare carte, ricostruire fatti. Ed era giunto alla conclusione che, se il battello fosse giunto a destinazione, sarebbero potute cambiare le sorti della neonata nazione, o perlomeno si sarebbero svelate trame, interessi, finanziamenti e abusi che avevano costituito il sottostrato oscuro dell’impresa garibaldina, alzando un coperchio che avrebbe dato origine a un’infinita catena di rivelazioni su atti e connessioni illeciti. Perché nel naufragio era perito anche il suo avo, Ippolito Nievo, che appunto portava con sé una delicatissima documentazione.

Laureato in legge, giornalista, scrittore (la sua opera più famosa è Le confessioni d’un italiano, pubblicata postuma), Ippolito Nievo si era innamorato presto delle idee mazziniane e, dopo aver probabilmente partecipato alla fallita insurrezione di Mantova nel 1848 e ai moti di Livorno l’anno seguente (non è certo: la famiglia cercò di proteggerlo cancellando le tracce del suo coinvolgimento), si arruola volontario nel 1859 tra i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi e poi partecipa alla Spedizione dei Mille. Si distingue, è coraggioso e determinato, diventa colonnello e gli vengono assegnati importanti incarichi amministrativi, fino a ricoprire il ruolo di vice intendente generale dell’Esercito meridionale in Sicilia durante la dittatura garibaldina.

È proprio perché gli viene richiesto di recuperare la documentazione delle spese sostenute in quel periodo, che Nievo va a Palermo. È sempre stato onesto, aveva denunciato più volte ufficiali avidi, abusi negli ospedali militari («si ammettono gli infermi senza che il commissario di guerra segni i biglietti d’entrata, di conseguenza non conoscesi la base di contabilità»), vendita al mercato nero di abiti e armi dati in dotazione ai soldati («tutti i giorni, in tutte le piazze»). Per non parlare di traffici molto più gravi, che vedevano protagonisti personaggi di spicco.

Nievo viene inviato a Palermo perché ormai la stampa e i conservatori sono scatenati. La gestione finanziaria della dittatura garibaldina è sotto accusa per i finanziamenti e gli appalti per nulla chiari, gli arricchimenti improvvisi di persone losche, il denaro sperperato.

Una volta a Palermo, Nievo ci mette venti giorni a radunare tutte le carte. Un tesoro di cui conosce bene il potenziale esplosivo.

Sono in molti a desiderare che quel tesoro non arrivi mai a Torino. E i loro desideri saranno esauditi.