DI ENRICO PIRONDINI

Top manager ricchi, molto ricchi, forse un po’ troppo. In questi tempi di pandemia e lockdown , di gente che ha perso il lavoro e forse non lo ritroverà più, circolano  voci che ti fanno sobbalzare. Voci indigeste. Cronaca vera.

Giorni fa si è appreso che l’ex capo di Ubs (banca privata per gli investimenti sostenibili; un colosso con 70mila dipendenti in 45 paesi, quartier generale in Svizzera), il signor Sergio Ermotti – nella società svizzera dal 2001 al 2020, in carica fino allo scorso ottobre – è stato il più pagato d’Europa.

Guadagnava 11,9  milioni all’anno.

Considerando il reddito medio di un italiano (21.600 euro in dodici mesi), un nostro connazionale ci metterebbe 550 anni per guadagnare altrettanto.

“A voler essere precisi poco più di 549 anni” ha spiegato la redazione economica del Corriere della Sera. Negli ultimi 9 anni il banchiere di Lugano ha guadagnato quanto un ticinese in 1.800 anni. “Un caso assunto come l’apoteosi della enorme differenza degli stipendi tra top manager e dipendenti” ha spiegato l’esperto Davide Nitrosi. Aggiungendo, costernato: “Il differenziale salariale è cresciuto senza ritegno negli ultimi 70 anni”.

Anche in America non si scherza. Negli anni Cinquanta un amministratore delegato guadagnava venti volte la paga di un impiegato.

Negli anni Ottanta il rapporto è salito: 42 a 1. Ed oggi? Siamo al rapportone. Cioè oltre il 200 a 1. Un ceo da quelle parti guadagna la bellezza di 500 volte in più di un impiegato. Il record appartiene alla JCPenny, catena di grandi magazzini con sede a Piano (Texas); catena, detto tra noi, fallita mesi fa stroncata dal Covid -19. Bene. Il ceo ha tolto il disturbo con un compenso pari a 18 mila volte lo stipendio di un commesso. E la catena ha consegnato i libri contabili alla corte federale per bancarotta appellandosi al “Chapter 11” statunitense che permette una riorganizzazione aziendale o eventualmente la messa in liquidazione. Si profilano tempi cupi. Mentre l’ex ceo prende il sole ai Caraibi. Probabilmente felice.

Un attimo. Ragioniamo. È davvero la ricchezza a rendere felici? O, come suggerisce Nitrosi, è piuttosto il modo di viverla?

La lezione di tre top manager - Faccio tre nomi: Warren Buffet, Ingvar Kamprad e Rosalia Mera. Un americano, uno svedese, una spagnola. Tre miliardari. Tre miti.

L’americano Buffet, imprenditore e filantropo, è noto in tutto il mondo per la sua sorprendente abilità negli investimenti finanziari e nel predire guadagni e perdite. È considerato il più grande “ value investor “ di sempre. Ha 90 anni e un patrimonio netto di 98,5 miliardi di dollari (fonte Forbes).

È anche un notevole filantropo. Impegna il 99% del suo patrimonio in cause filantropiche. Dice di essere felice. Ma non per la montagna di soldi guadagnati, per le sue Intuizioni. Gli bastano. Vive in una casa comprata nel 1958 e si sposta su un’auto di seconda mano.

Della stessa pasta mister Ikea, cioè Ingvar Kamprad (1926-2018). Dal 1976 alla morte ha vissuto in una villetta a schiera nei pressi di Losanna. Anche lui si dichiarava felice.

Rosalia Mera, co-fondatrice con il marito Amancio Ortega dell’impero Zara, ramo abbigliamento, 2.232 filiali in 93 Paesi. Donna semplice, andava in ufficio su un autobus di linea. È morta nel 2013. Erede ufficiale la figlia Sandra, donna riservata, schiva.

Due giganti della fisica e della poesia riassumono il concetto di felicità.

Albert Einstein (1879-1955), premio Nobel per la fisica (1921): “Se vuoi una vita felice devi dedicarla ad un obiettivo, non a delle persone o a delle cose”. Il denaro, appunto. Alda Merini (1931-2009), poetessa e aforista diceva: “La miglior vendetta? La felicità. Non c’è niente che faccia più impazzire la gente che vederti felice”.