di Michele Bovi
L'Italia degli inni e dei campanili s'è desta. È bastato l'annuncio "Bella ciao è nata in provincia di Macerata" apparso su Il Fatto Quotidiano per riattizzare il fuoco delle polemiche. Nei 76 anni trascorsi dalla liberazione, la canzone simbolo della Resistenza italiana è stata più volte attribuita ad autori e circostanze diversi. La versione che ha resistito più a lungo è quella dell'adattamento elaborato nel 1888 dall'agente segreto del Risorgimento Costantino Nigra come ballata delle mondariso ("Alla mattina appena alzata / o bella ciao o bella ciao ciao ciao / alla mattina appena alzata / laggiù in risaia debbo andar"). Con il testo rimodellato negli anni della guerra civile sarebbe diventata celebre come inno dei partigiani a partire dal 1947, promossa dalla partecipazione a Praga dei giovani comunisti emiliani alla rassegna canora "Canzoni mondiali per la gioventù e per la pace", fino alla consacrazione nel 1964 grazie all'incisione del cantante e attore italo-francese Yves Montand e allo spettacolo Bella ciao con il Nuovo canzoniere italiano sul palco del Festival di Spoleto sponsorizzato dall'editore e discografico Nanni Ricordi.
Un'altra indagine di musicologi aveva in seguito individuato una fonte originaria precedente, non più emiliana bensì abruzzese, un coro germogliato sul massiccio montuoso della Majella. Ora in un saggio pubblicato da Castelvecchi, "Bella ciao, la storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo", il ricercatore maceratese Ruggero Giacomini mostra una lettera datata 1946 che cita Bella ciao come canto dei partigiani della Brigata Garibaldi accampati sul monte San Vicino.
Chi si aspettava un sussulto d'orgoglio marchigiano è rimasto sorpreso dalla fulminea replica di Annalisa Cegna, direttrice dell'Istituto storico della Resistenza di Macerata, che ancora prima dell'uscita del libro ha commentato dalle colonne de Il Resto del Carlino: "Un solo documento non è sufficiente per avere garanzie storiche. Come studiosa andrei cauta ad affermare che la canzone Bella ciao sia nata nel Maceratese" confutando l'anticipazione del concittadino ricercatore. Majella e Reggio Emilia restano pertanto in gioco per l'origine delle parole "oh partigiano portami via".
La genesi della struttura musicale del brano è ancora più confusa: forse ispirata alla filastrocca trentina per bimbi La me nòna l'è vecchierella, forse alla nenia piemontese La daré d'côla môntagna ereditata da un canto francese del Cinquecento. Un altro tassello arriva dalla ricerca divulgata negli anni Duemila dall'ingegnere fiorentino Fausto Giovannardi: la musica di Bella ciao è molto simile a quella di Oi Oi di Koilen, una melodia yiddish registrata dal fisarmonicista di origini ucraine Mishka Ziganoff nel 1919 a New York. La forma ritmica di Bella ciao si sposa in effetti alla perfezione con il klezmer, il genere musicale degli ebrei dell'Est Europa: persino in Hava Nagila (in italiano Rallegriamoci) la più nota tra le canzoni popolari ebraiche, si colgono analogie armoniche con Bella ciao.

Ammessa la genuinità dell'elaborazione di fine Ottocento dovremmo scoprire dove Costantino Nigra aveva ascoltato la musica che ispirò la sua ballata per le mondariso. Le ipotesi sono diverse, ma nessuna convince in pieno: Nigra era un giramondo, fu ambasciatore a Parigi, San Pietroburgo, Londra e Vienna. La Bella ciao arrivata a noi, come la maggioranza degli inni, andrebbe forse risolutivamente attribuita a Omero, ovvero alla tradizione popolare, con i contributi di tanti che hanno tramandato e aggiornato melodia, armonia, ritmo e testo. Con emiliani, abruzzesi e marchigiani a pari merito.

Conferma del lavoro centenario di trasmissione di stesura degli inni viene da Bandiera rossa. Anche per il canto dei lavoratori si narra di complesse trasformazioni: ideata nei primi dell'Ottocento come aria popolare lombarda Ven chi Nineta sotto l'ombrelin, divenne cinquant'anni dopo canto repubblicano ("Avanti popolo con la riscossa / bandiera rossa, bandiera rossa/ bandiera rossa la trionferà / viva la repubblica e la libertà"). Risale al 1908 la versione socialista di Carlo Tuzzi che dopo la rivoluzione bolscevica, con nuove variazioni al testo, diventò il più ricorrente inno ufficiale del Partito comunista italiano ("Avanti o popolo, alla riscossa / bandiera rossa, bandiera rossa / bandiera rossa la trionferà / Evviva Lenin, la pace e la libertà").

La stessa confusione per le origini degli inni della sinistra, la ritroviamo in quelli della destra. Giovinezza l'inno caro a Benito Mussolini non era nato per il Regime. Bensì era stato composto da Giuseppe De Blanc nel 1909 per una cena di laureandi del Politecnico di Torino, con le parole di Nino Oxilia, l'autore che con Camasio avrebbe poi scritto la commedia Addio giovinezza, e cominciava con le parole "Son finiti i giorni lieti". Poi gli Alpini nella guerra 1915-18 avevano portato il brano in Libia, cambiando l'inizio con "Allorché dalla trincea". Fu soltanto qualche anno dopo che Giovinezza, il cui refrain era rimasto sempre uguale ("Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza"), divenne con le nuove parole iniziali di Salvator Gotta, "Salve o popolo di eroi", l'inno ufficiale del fascismo. La musica di Giovinezza, caduto da tempo il regime, fu copiata sfacciatamente nell'America del Sud e registrata su disco come pezzo sinfonico col titolo Casamento Maroto – Marcia brasileira. L'autore De Blanc dovette intraprendere una causa internazionale di plagio per riottenerne i diritti.

Di procedimenti giudiziari, per contraffazione e illeciti vari, fu bersagliata soprattutto Faccetta nera, la canzone più famosa del Ventennio, interpretata da Carlo Buti con il testo del poeta Renato Micheli. Le grane maggiori toccarono all'autore della musica, il maestro palermitano Mario Ruccione compositore di altre famose marce di regime come La sagra di Giarabub e Camerata Richard, sempre affidate alla stabile intonazione di Buti, ma anche di brani delicati e longevi come Vecchia Roma e Serenata celeste. A denunciare Ruccione per plagio furono Vincenzo Raimondi, un musicista dilettante e l'attore Gustavo Cacini "un comico poveraccio d'avanspettacolo con arie da Giggi er bullo" lo ricordò nella sua autobiografia l'attore Paolo Stoppa. I querelanti chiesero al pretore di Roma il sequestro conservativo della canzone dimostrando che la frase musicale "Faccetta nera – bella abissina – aspetta e spera che già l'ora s'avvicina" risultava identica a quella di un loro lavoro precedente, intitolato La vita è comica, che recitava "La vita è comica – presa sul serio – perciò prendiamola davver poco sul serio! – La vita è comica – ognun lo sa – perciò prendiamola davver come ci va". Il magistrato accolse il ricorso e i nomi di Cacini e Raimondi vennero aggiunti nei crediti del brano accanto a quello di Renato Micheli. Scomparve in molti bollettini il nome di Ruccione seppure nella memoria di tutti è rimasto l'unico vero autore dell'inno dell'Italia coloniale. Altri ancora in seguito avanzarono pretese riguardo alla paternità del brano, come Giulio Razzi, dirigente dei programmi della Rai del dopoguerra, o tentarono di contrastarne la proprietà editoriale.

La confusione all'origine degli inni sociali non dispensa gli inni religiosi. Il motivo natalizio che tutti almeno una volta abbiamo intonato, Tu scendi dalle stelle, è un plagio. Prima metà del Settecento: i compositori contendenti erano entrambi prelati. Uno vescovo di Tropea, monsignor Felice de Paù, il quale dette origine a La Pastorella terlizzese come canto religioso della novena di Natale. L'altro, il monsignore napoletano Alfonso Maria de' Liguori, che si attribuì nello stesso periodo un'identica melodia con un testo in partenopeo e il titolo Quanno nascette Ninno, poi pubblicata in italiano come Tu scendi dalle stelle. Gli studiosi impegnati nel confronto tra le due opere, sembrano concordare per la paternità pugliese. Ma si avverte un problema di fondo: i periti a loro volta appartengono a ordini religiosi. Monsignor de' Liguori già vescovo della diocesi di Sant'Agata de' Goti, nel 1839 è stato canonizzato e in seguito proclamato dottore della Chiesa, nonché patrono dei confessori e dei giureconsulti. È dunque comprensibile il disagio per un ecclesiastico di affibbiare la patente di plagiario a un santo, tanto più se patrono degli avvocati.