Gente d'Italia

Julio Cortázar e gli intellettuali esuli: “Impossibile scrivere nelle dittature”

DI MARCO FERRARI

C'era un'epoca in cui l'unico modo per esprime le proprie idee era l'esilio. Accadde nel periodo delle dittature militari in Sud America, conseguenza della crisi dei missili di Cuba. Nei due decenni Sessanta-Settanta, l'avvento al potere dei militari costrinse molti intellettuali a lasciare il proprio paese. Anzi, numerose opere di autori latino-americani sono state scritte proprio all'estero. García Márquez scrisse "Cent'anni di solitudine" a Città del Messico e "L'autunno del patriarca" a Barcellona, altri autori scrissero a Parigi, a Cuba, a Londra, negli Stati Uniti, persino in Asia. Daniel Chavarria arrivò a Cuba dal Brasile dirottando un piccolo aereo, per il quale aveva pagato il biglietto. A Cuba ha lavorato come traduttore e insegnante di latino e greco, prima di iniziare la sua carriera di scrittore. Si definiva cittadino uruguayano e scrittore cubano scrivendo romanzi come "Joy", "L'occhio di Cybele" e "Viudas de sangre".

Negli anni Sessanta la meta preferita dai nuovi scrittori fu Parigi dove arrivarono Julio Cortazar, Carlos Fuentes, Vargas Llosa fra gli altri. Nel 1973 Mario Benedetti, dopo il colpo di stato militare, dovette abbandonare l'Uruguay a causa del suo attivo appoggio ai movimenti marxisti; lasciò il suo incarico all'Università e partì per l'esilio a Buenos Aires. Viaggiò per l'Argentina, il Perù, la Spagna. Furono dieci lunghi anni che lo videro lontano dalla sua patria e da sua moglie, la quale dovette rimanere in Uruguay per accudire la madre e la suocera. Dura fu anche la dittatura brasiliana che costrinse a fuggire all'estero intellettuali, registi, scrittori e musicisti. Non erano nemmeno trentenni Caetano Veloso, Gilberto Gil e Chico Buarque de Hollanda, quando dovettero far di corsa le valigie scappando in Europa. I primi due si fermarono a Londra, Buarque si stabilì a Roma con la moglie Marieta, dove nacque la loro prima figlia.

Ripararono in Italia anche molti registi brasiliani come Glauber Rocha che qui realizzò opere importanti. Il decreto legge 1077 del 1970 istituì la censura: la stampa e l'editoria vennero messe a tacere, molti scrittori e artisti lasciarono il paese (Jorge Amado, Augusto Boal, Sergio Kokis), altrettanti vennero oscurati (Heloneida Studart) e solo pochi continuarono a scrivere (Rubem Fonseca, João Antônio). Ci fu chi trovò modo di resistere alla dittatura, come il quotidiano progressista di Rio, il "Jornal do Brasil", che avendo i censori in redazione, riusciva a fare dei titoli per avvertire i lettori di quanto stava avvenendo tipo "Ieri è stato il giorno dei ciechi" oppure, a proposito di meteo, "Aria irrespirabile, il Paese percorso da forti venti". Fra i brasiliani Jorge Amado conobbe la lontananza dalla patria diverse volte, prima in Argentina e Uruguay, poi in Francia, dal 1948 al 1950, infine passò tre anni in Unione Sovietica, prima di tornare in Brasile.

Neruda prima viaggiò per il mondo come console del suo paese, il Cile, poi fu costretto a una rocambolesca fuga attraverso le Ande e dall'Argentina, giunse infine in Europa. Tra gli ultimi esiliati dalle dittature degli anni Settanta ricordiamo Sepùlveda, Allende, Rolo Diez e compagni. Ma quale effetto ebbe l'esilio sulla letteratura? Per alcuni era impossibile realizzare opere lontano dalla propria terra, per altri invece la vena artistica non si esaurì all'estero. Julio Cortázar, all'anagrafe Julio Florencio Cortázar Descotte, ha finito per morire proprio a Parigi nel 1984. La sua scrittura è caratterizzata da una forte componente fantastica e a tratti metafisica, sempre aderente però a uno stile estremamente realistico. Stimato da Borges, è stato spesso paragonato a Čechov e Edgar Allan Poe. I suoi racconti non seguono sempre una linearità temporale e i personaggi esprimono una psicologia profonda.

A rammentarci la sua vita di profugo ci pensa ora il libro "Esilio & letteratura" (De Piante Editore) che per la prima volta vede pubblicate le carte che Julio Cortázar ha intrattenuto con Liliana Heker dal 1978 al 1980 e le lettere, finora inedite, inviate dal grande scrittore ad Abelardo Castillo. Due generazioni che hanno reso indimenticabile la letteratura sudamericana nel gorgo del "regime militare" argentino tra fuga e resistenza. Che rapporto deve avere un artista con il potere? Che ruolo deve interpretare uno scrittore quando il suo paese è governato da un regime? Julio Cortázar, il grande scrittore argentino, aveva le idee chiare: un artista non può resistere a un regime avverso, che impedisce l'attività intellettuale, deve scegliere l'esilio.

A differenza di Cortázar, la Heker aveva deciso di resistere e di scrivere durante gli anni della dittatura militare argentina. Cortázar si definiva "esiliato" e considerava "martiri o morti viventi" quelli rimasti in Argentina. Anche quelli che lottavano, come i ragazzi che scrivevano e distribuivano nelle università e nel cafè un foglio chiamato "El Ornitorrinco" fondato da Liliana Heker, Abelardo Castillo e Sylvia Iparraguirre. Un gruppo che non aveva paura di essere contro nell'epoca buia del potere carnivoro di un'Argentina che non c'è più, ma continua ad abitare gli incubi di un'intera generazione. I giovani ornitorinchi, che amano e venerano il maestro, replicarono con una durissima, argomentata, severa, inesorabile risposta. Tutto questo accadeva nel lontano inverno australe del 1980, un periodo trionfante per la dittatura. Che compito può assolvere un artista, uno scrittore, un poeta, in un'era avversa, retta da un potere bestiale?

I ragazzi finiranno per scegliere la timida, dolcissima, severissima Liliana Heker. Sul ring quell'incontro non sarebbe stato permesso, troppo diversa la categoria: Julio Cortàzar aveva 66 anni, era alto quasi due metri, aveva dato alle stampe opere che erano capolavori nel mondo largo della letteratura. Liliana aveva 37 anni, era alta un metro e cinquantasei centimetri, non aveva scritto libri, se non racconti su piccole riviste, e anche in Argentina nessuno la conosce oltre il centro di Corrientes e Calle Quintana. Fin dall'incipit della polemica il "gigante" appare in difficoltà. Nella sua lettera aperta Cortàzar ha fatto letteratura, ha parlato di cose che non conosce, ha usato la fama personale come grimaldello per avventurarsi in affermazioni incaute. La chiave centrale è una non dovuta ammissione di sconfitta, la resa dell'intellettuale in un panorama desolato dove la dittatura ha già vinto: "Non siamo né martiri né eroi, ancora una volta siamo gente spazzata via all'esterno o annichilita all'interno".

Cortàzar ci ha lasciati prematuramente, Liliana Heker, classe 1943, è diventata una delle voci più forti della moderna letteratura argentina. Nel 1984, pochi mesi dopo la morte di Cortàzar, lo scrittore Osvaldo Bayer chiese a Liliana se non si fosse pentita di aver discusso così aspramente con lui: "Gli dissi di no, assolutamente: ciò avrebbe presupposto mancargli di rispetto, supporre che la morte lo avesse sconfitto, lo avesse reso innocuo. Continuo ad ammirare e a voler bene a quello scrittore totale e attuale. E, nel contesto storico in cui avvenne la nostra controversia, continuo a discutere con lui". Lei ci ha fornito una chiave di lettura del Sud America di ieri e di oggi con opere significative come "La muerte de Dios", "Los bordes de lo real" e "Las peras del mal".   

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