Di Franco Monaco

La disfida su Rousseau non è una disputa filosofica. Trattasi più modestamente della contesa pratica, non priva di risvolti venali, tra il M5S e la nota piattaforma che ne ha accompagnato la parabola, oggi in capo a Davide Casaleggio, figlio del cofondatore visionario del movimento, a fianco di Beppe Grillo. Difficile fare previsioni sull’esito del braccio di ferro. I più informati pronosticano una imminente rottura. Come accennato, la questione è ingarbugliata, si intrecciano interessi personali, economici, politici e il tutto è avvolto in quell’alone di mistero che contrassegna le dinamiche ai vertici del M5S, a dispetto della originaria retorica della trasparenza (chi rammenta più l’enfasi sullo streaming come pratica sistematica e qualificante del movimento?). Profili che non appassionano. Al netto di essi, merita invece qualche riflessione in punto di principio. Primo. È indubbio che le tecnologie digitali, virtualmente, rappresentano una preziosa risorsa se e quando messa a servizio della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Uno strumento utile a conoscere i problemi della comunità – locale, nazionale, planetaria -, a sviluppare un largo confronto su di essi, a partecipare alle decisioni di chi è chiamato a deliberare. Uno strumento ancor più utile oggi, quando – piaccia o non piaccia – le forme della partecipazione civica e politica sono più orizzontali, più discontinue, meno inclini ad affidarsi alle organizzazioni della rappresentanza. A cominciare da sindacati e partiti. Al punto da costringerli ad avvalersi di quegli strumenti e di quelle pratiche digitali per rivitalizzare una dinamica partecipativa che langue al loro interno. Ideando forme di informazione, consultazione, coinvolgimento nelle decisioni dei loro organi deliberativi. Secondo. Impossibile rinunciare a questa risorsa per chi coltiva una concezione partecipativa della democrazia. Nel mentre il M5S si avvita nei suoi tormenti sul punto, il neosegretario Letta annuncia di voler fare del Pd il partito dell’intelligenza collettiva grazie al digitale. E tuttavia, anche se tra mezzo e fine si dà un rapporto circolare, tra loro va stabilita una distinzione. Per quanto si possa conferire centralità alla piattaforma, essa si iscrive pur sempre nel novero dei mezzi posti a servizio di fini che sono in capo al soggetto politico nella sua autonomia. La confusione dei piani e delle responsabilità genera appunto i conflitti insorti dentro il M5S. Problemi di varia natura. Di trasparenza nelle procedure e nella gestione dei processi (per votazioni, consultazioni, deliberazioni). Problemi di precisa imputazione delle responsabilità. Problemi di univocità nella formulazione dei quesiti, spesso inerenti a questioni complesse, da sottoporre agli iscritti. Si pensi – non è poco - alla decisione relativa al sostegno a questo o quel governo. Problemi di proprietà dei dati (a cominciare dagli elenchi e dalle informazioni relative agli iscritti). Problemi anche relativi alla congruità. Si pensi alla delicata designazione di candidature di rilievo (ad esempio al parlamento o a sindaco) per le quali è bastata una esigua manciata di voti. In breve, certe decisioni esigono una istruttoria, una elaborazione, un confronto che non possono risolversi in un click. Al fondo, sta la madre di tutti gli equivoci, quella che si riassume nello svilimento del concetto e della pratica della rappresentanza. Esponenziale l’equivoco dei “portavoce” in parlamento. Come se essi fossero anonimi passacarte. Come se la rappresentanza non fosse concetto pregnante, che comporta un “lavoro” di mediazione-interpretazione-elaborazione. Tanto più richieste al parlamentare, che, secondo la Costituzione, è rappresentante della nazione. Questo cumulo di problemi irrisolti e affidati magicamente a una macchina alimenta il sospetto (e forse non solo il sospetto) che la decantata democrazia diretta si risolva in democrazia diretta …. dall’alto. Come, del resto, abbiamo riscontrato nei passaggi cruciali della vicenda del M5S, con l’intervento autoritativo e dirimente del fondatore-garante. Infine – terzo - i suddetti limiti si fanno ancor più corposi quando lo status di titolare della piattaforma è quello di una società privata che pratica anche rapporti commerciali. E’ singolare che gli attuali gestori resistano all’idea, che sembrerebbe ragionevole, persino ovvia, di siglare con il movimento politico un “contratto di servizio”. Coerente appunto con la suddetta distinzione tra mezzo e fine politico. Di più: che essi non escludano di mettere la piattaforma a servizio di altri soggetti politici italiani e stranieri. Ma che, contestualmente, avanzino la pretesa di vincolare il movimento politico a sacri, immutabili principi dei quali sarebbero essi custodi (tipo il limite dei mandati). Da ultimo, la bizzarria del principio ereditario. Casaleggio padre è considerato il fondatore visionario del M5S. Ma che questo autorizzi il figlio Davide a rivendicare una primazia o comunque un potere di indirizzo o di veto sul movimento è circostanza due volte contraddittoria. Sia perché non c’è cosa come lo spirito visionario che vanta una unicità: di sicuro, il genio non si trasmette attraverso i geni. Sia perché è tesi agli antipodi dell’uno vale uno. Una massima assai discutibile che fu appunto tra i dogmi (fallaci) del M5S, ma che semmai sarebbe da applicare proprio in questo caso.