Di Tito Lucrezio Rizzo

Due cose sono immortali: l’Arcadia e la camorra” diceva Giosuè Carducci al crepuscolo del secolo XIX. Oltre un secolo dopo, un ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che aveva conosciuto assai bene tutte le sfaccettature del prisma dell’illegalità sin dall’esperienza maturata da ministro dell’Interno, scrisse un libro che ne costituì una sorta di testamento spirituale, dal titolo spregiudicatamente disincantato: “Fotti il potere: gli arcana della politica e della umana natura”. Ivi affermò: “L’Italia è l’Italia: l’Italia della mafia, l’Italia della ndrangheta. E, purtroppo, sarà sempre così”. Riferendosi, poi, ai rapporti con i mafiosi, affermò: “Per fare politica occorre avere rapporti con chi ha il potere, e in Sicilia, come sanno bene anche quei pochi ex diessini capaci di raccogliere qualche voto sull’isola, fare politica senza entrare in contatto con la mafia, è praticamente impossibile. Salvo ad accettare di svolgere un ruolo per così dire residuale”. Per mafia (o mafie) in senso lato si intende una sorta di costellazione malavitosa in cui sono aggregate tutte le organizzazioni criminali, che costituiscono un anti-Stato nello Stato, avvalendosi prevalentemente per la sua affermazione dello strumento dell’intimidazione, del ricatto, dell’estorsione, dell’assassinio… a fronte di siffatte prevaricazioni, molti subiscono per paura; ma nell’umanità vi sono persone coraggiose che non si lasciano intimidire. Vi è tuttavia un sentimento assai più incisivo e vincolante della paura, ed è quello della gratitudine, che si diffonde quando lo Stato risulta latitante nei suoi compiti fondamentali di difensore e garante del lavoro, della proprietà e dell’incolumità personale dei suoi cittadini. In tal caso, trattandosi di violazione del contratto sociale idealmente stipulato tra la collettività e lo Stato medesimo, dove esso Stato è funzionale alla promozione ed alla salvaguardia dell’ordinata vita civile dei cittadini, si inserisce la mala pianta della criminalità, che si offre a garantire pane, lavoro e sicurezza: è così che l’anti-Stato, nella percezione di taluni si fa “Stato”. Lo Stato non è soltanto una costruzione del diritto pubblico (ente dotato di sovranità, territorialità, cittadini), ma è anche una realtà concreta pulsante di vita, riconoscibile come tale da tutti coloro che ne fanno parte. Illuminanti al riguardo, sono alcune considerazioni espresse circa centosettanta anni fa in seguito alla sanguinosa repressione dei moti del 1894, durante i dibattiti parlamentari che ne seguirono. Fra i tanti si distinse per veemenza oratoria e stretto rigore logico il deputato socialista Camillo Prampolini, il quale nella seduta del 13 marzo 1894 affermò che il Partito Socialista non aveva la pretesa di rappresentare tutti gli italiani, ma che aveva ben chiaro cosa significasse il concetto di Patria, come precisò rivolgendosi al presidente del Consiglio, FrancescoCrispi: “Voi ci insegnate che, specialmente per le masse incolte, non si può pretendere che la Patria si limiti ad essere solo un uomo, un ideale, ma deve essere qualcosa di più, qualcosa che soddisfi e non neghi i loro bisogni più vitali. Orbene, se ciò è vero, se è vero anche che in questi ultimi trent'anni di vita della borghesia italiana, la patria per i lavoratori si è andata restringendo di giorno in giorno. Invece di conquistarla, essi l’hanno perduta; perché, onorevole Crispi, se la Patria non è soltanto un’astrazione, ma è anche il pane assicurato, il diritto all'esistenza, l’istruzione e l’educazione dei propri figli, e il lavoro indispensabile per vivere, almeno i quattro quinti degli italiani oggi sono di fatto senza Patria. Badate, noi non accusiamo la vostra persona, non accusiamo neppure la vostra classe; accusiamo il vostro ordine, il vostro sistema economico, e constatiamo dei fatti... Anche la Patria, come la proprietà, oggi è divenuta il privilegio di pochissimi... E vi meravigliate, onorevole Crispi, vi meravigliate, onorevoli colleghi, se in mezzo a questi proletari, a questi non aventi diritto all’esistenza, nascono dei moti di ribellione? Vi meravigliate se nel porto di Genovaqualche volta i nostri emigranti, mentre partono ed hanno sul ciglio una lacrima, tuttavia gridano: maledetta Italia? Vi meravigliate voi, che insorgeste contro l’oppressione politica, vi meravigliate voi, onorevole Crispi, che oggi in mezzo alle vittime di un’oppressione assai più grave, la oppressione economica, sorga il Partito Socialista, sorgiamo noi? Noi non siamo i distruttori, ma i continuatori dell’opera di civiltà compiuta da chi volle l’Italia una e indipendente”. Partendo da tali considerazioni che contengono spunti di riflessione di perdurante attualità, potremmo oggi dire – soprattutto dopo la pandemia del Coronavirus – quanti sono gli Italiani che si sentono senza Patria? Milioni di essi non hanno più né pane né lavoro, le famiglie si disgregano, la natalità è vicina allo zero. Nella realtà “ordinaria”, vale a dire al di fuori della pandemia dalla quale usciremo presto grazie ai vaccini, vi è in Italia una sorta di patologia sistemica, che riguarda la difesa dei beni fondamentali della vita e della proprietà, cui sono preposte le forze dell’ordine: come è possibile sentirsi tutelati da servitori dello Stato che sono stati sostanzialmente disarmati innanzi ad una criminalità nostrana e di importazione sempre più agguerrita e spavalda nell’impunità? Torna la tentazione di farsi giustizia da sé o peggio- come nel Meridionedi rivolgersi alla “giustizia parallela” assicurata da quella che, per sintesi espositiva, possiamo chiamare sinteticamente “mafia”: essa è puntuale, non ha remore e si rende garante della sua “protezione” sui beni e sulle persone, a fronte di quella sorta di tassa occulta che si chiama “pizzo”. La celebre commedia di Eduardo De Filippo “Il sindaco del rione Sanità” rappresentò la trasposizione teatrale di una giustizia parallela che era abbastanza diffusa nei rioni poveri di Napoli, ma che esisteva ed esiste anche nella mafia siciliana. In tema di giustizia, non è il caso di parlare della crisi globale della Magistratura, sana nella stragrande maggioranza di coloro che ne fanno parte e tempio di una religione del Dovere che annovera numerosi martiri come Livatino, Falcone, Borsellino e numerosissimi altri. Tuttavia parte di essa, numericamente minoritaria, ma strategicamente collocata in posti chiave in grado di condizionare pesantemente la politica, è stata esaustivamente descritta nei suoi fenomeni degenerativi nel libro di Luca Palamara “Il Sistema”, il cui autore è stato peraltro protagonista di primo piano di detti fenomeni, sino a quando non è intervenuta una sorta di sua conversione sulla via di Damasco. Si è fatto cenno alla tentazione di farsi giustizia da sé o peggio, cioè di ricorrere alla “protezione” della mafia di turno, così bruciando secoli di civiltà del diritto, di cui l’Italia è stata “culla” a livello universale. Platone (427-347 avanti Cristo) evidenziò che l’uomo costituiva un prius rispetto allo Stato, il quale era derivato dai cittadini, e non viceversa, per cui esso Stato doveva farsi carico dell’ordinato vivere civile della collettività, da cui traeva legittimazione, vale a dire incarnare la suprema idea morale della Giustizia. Il padre del liberalismo moderno, John Locke (1632-1704), teorizzò un “contratto sociale” come momento fondativo dello Stato, in ragione del quale gli individui convenivano di non privarsi di ogni potere innanzi allo Stato onnipotente, ma delegavano ad esso solo quello di difesa e di farsi giustizia da soli. Pertanto, lo Stato trovava ragione di essere e limite nel fine stesso per cui era stato istituito: provvedere con le sue norme a difendere i diritti naturali alla vita, alla libertà ed alla proprietà, ad esso preesistenti. Il nostro Cesare Beccaria (1738-1794), autore del celeberrimo Dei delitti e delle pene, ricondusse la nascita del potere statale alla rinunzia effettuata contrattualmente dai cittadini a parte dei loro diritti, per ottenerne in cambio il benessere civile. Venendo all’attuale legislazione penale, in gran parte fondata sul codice di AlfredoRocco, con gli aggiornamenti resisi necessari dal divenire socio-politico nell’arco dei quasi 90 anni trascorsi dalla sua redazione, l’articolo 52 del codice penale testualmente recita al primo comma: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. In atto con la legge 13 febbraio 2006 numero 59, aggiornata più recentemente da quella 26 aprile 2019 numero 36, si è introdotta la cosiddetta legittima difesa domiciliare, al fine di consentire una maggiore tutela alle vittime dei furti in casa, alla quale è equiparato ogni altro luogo dove si eserciti un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale. Il quadro storico, filosofico e giuridico, per sommi capi delineato sulla legittima difesa nella cornice del contrattualismo come fondamento ideale e storico dello Stato, va completato con alcuni cenni sulla realtà contemporanea del nostro Paese, in merito alla criticità percepita nel rapporto tra rappresentanti e rappresentati, segnatamente in tema di pubblica sicurezza e di ordine pubblico. Detto tema è strettamente connesso con quello della legittima difesa individuale che, come in un’altalena ideale, sale e scende a seconda del contrappeso fornito dallo Stato a garanzia dei beni fondamentali della vita e della proprietà del cittadino. Mezzo secolo fa (1969) si ebbe un’organizzata “conflittualità permanente” con scioperi a catena, e tafferugli come quello di Battipaglia, in seguito al quale la Sinistra più accesa chiese il disarmo delle forze dell’ordine. Disordini accaddero anche nelle Università, a partire dalla Sapienza di Roma, sino a quelli nella Statale di Milano, nei cui pressi il 19 novembre fu assassinato nel suo autoblindo il giovane agente Antonio Annarumma, durante gli scontri con dei facinorosi di area marxista: le forze dell’ordine erano sì armate, ma con la consegna di non difendersi con i mezzi che avevano in dotazione. Nel 2001 durante il G8 di Genova, morì il giovane dimostrante Carlo Giuliani, mentre brandiva un estintore per scagliarlo contro un blindato dei carabinieri, da dove il carabiniere Mario Placanica sparando un colpo lo ferì mortalmente. L’aggressore fu immortalato come un eroe – andandosi ben oltre l’umana pietas che merita sempre la morte – mentre l’aggredito, che aveva agito nella legittima difesa prevista dal codice penale, venne sottoposto non solo a procedimento giudiziario, ma anche a gogna mediatica, con un paradossale scambio di ruoli tra aggressore (soccombente) ed aggredito (reo di essere sopravvissuto difendendosi). Dieci anni dopo, le “bravate” dei cosiddetti Black Bloc calati a Roma il 15 ottobre 2011, non furono il frutto di furia estemporanea, ma di un piano studiato nei minimi dettagli e meticolosamente preparato, anche attraverso viaggi di “istruzione” all’estero, per perfezionare la nobile arte della devastazione e del saccheggio, goffamente nobilitata da motivazioni economico-sociali. Si ebbero eclatanti episodi di distruzione vandalica e di proditoria aggressione alle forze dell’ordine, allorché quei delinquenti organizzati misero a soqquadro la città di Roma, realizzando l’inquietante ripetizione di sequenze già vedute, appartenenti ad un passato prossimo e remoto. La novità fu data dalla contestualità con una protesta planetaria, che aveva coinvolto giovani e meno giovani scesi a manifestare in ogni parte del mondo, per problemi universali come la generale crisi economica e la conseguente disoccupazione, che aveva messo in crisi anche Paesi di consolidata solidità finanziaria, come gli Usa. Un gruppo di circa 2mila professionisti formati nella tecnica della guerriglia urbana, crearono panico, terrore e sconcerto – il che esattamente era ciò che desideravano – tra negozi, banche, chiese, private abitazioni, nonché tra la massa dei dimostranti “regolari”. Il tutto nella spavalda prospettiva di farla franca, essendo i delinquenti appoggiati dalle rispettive famiglie, incapaci di vedere negli atti criminali dei loro rampolli, poco più che delle esuberanti “ragazzate”; delinquenti altresì sostenuti dalla dietrologia giustificazionista da salotti radical-chic, miranti a spiegare, contestualizzare, motivare ed infine assolvere. Questo fu il “condimento aggiuntivo” che dette un sapore speciale alla protesta nostrana, avvelenandone gli ingredienti di base. Questo fu possibile, ancora una volta, non per l’insufficienza numerica dei tutori dell’ordine chiamati a fronteggiare la furia scientemente devastatrice dei delinquenti organizzati, quanto per la mancanza – in seno alle nostre forze di polizia – di poteri di prevenzione, di deterrenza e di repressione, analoghi a quelli di forze loro omologhe operanti in altri Paesi liberi, dove l’energia della dissuasione non ha mai messo in discussione la stabilità delle Istituzioni democratiche, ma anzi le ha rafforzate. Un giovane carabiniere, dileggiato ed aggredito da un bandito, studente a tempo perso, se non fosse riuscito a mettersi in salvo dal suo automezzo dato alle fiamme, avrebbe corso il rischio di restare intrappolato come il povero Annarumma e di farne la stessa fine, oppure –ove si fosse difeso – di trovarsi processato da criminale come Placanica. In questi termini, nessun appartenente alle forze dell’ordine fu più in grado di operare a difesa, prima ancora che della propria incolumità (il che è un diritto naturale, preesistente ad ogni codificazione scritta che lo legittimi formalmente), di quella dell’intera collettività. In tempi più recenti, un agente di polizia che il 10 giugno 2018 aveva sparato con l’arma di ordinanza per salvare un collega accoltellato da un giovane ecuadoriano, lo uccise, si ritrovò incriminato per eccesso colposo di legittima difesa! Qualcuno avrebbe dovuto spiegare ai comuni cittadini – ed a maggior ragione ai tutori dell’ordine – a fronte della percezione di una sorta di inesorabili “automatismi” nelle incriminazioni a titolo di “eccesso colposo”, in che cosa consistesse la “fisiologia “della legittima difesa. Procedendo per questa strada, si è progressivamente consolidato un sostanziale depotenziamento delle forze di polizia, che non sono state formalmente disarmate, ma che di fatto non possono difendere la collettività senza rischiare una incriminazione. A questa situazione di paralizzante operatività di coloro che sono chiamati a difenderci, si aggiunga l’ulteriore venir meno dell’effetto crimino-deterrente del sistema penale: ciò che serve, lo insegnava il Beccaria, non sono nuove e più aspre sanzioni, bensì pene certe nel momento applicativo, senza sconti, amnistie, indulti, offerte premiali ed altro, che vanificano l’effetto dissuasivo delle pene medesime, dato non dalla loro gravità in astratto bensì dalla loro inesorabilità nel momento applicativo. Il ridare fiducia e poteri alle forze dell’ordine sarà giovevole per la civiltà della Nazione, nella consapevolezza che non può esservi durevole libertà lasciando impunito il crimine e – peggio ancora – criminalizzando coloro che rischiano la vita senza aspettarsi nemmeno un “grazie”. Ma neppure di finire sotto processo. Solo allora sarà possibile una riflessione non emergenziale sulla perdurante necessità o meno che sia il singolo cittadino a doversi difendere senza per questo essere perseguito; oppure che vengano pienamente restituiti ai tutori dell’ordine quei poteri preventivi, dissuasivi e repressivi della criminalità, senza i quali poteri la stessa parola di “tutori dell’ordine” rischierebbe di apparire un guscio vuoto. Non accada mai che quel guscio debba essere riempito da “bravi” di manzoniana memoria, sempre pronti ad esercitare un ruolo di “supplenza” innanzi ad uno Stato depotenziato o carente. Supplenza nell’offrire posti di lavoro e pane nei periodi di crisi come la pandemia; ma al contempo rilevando predatoriamente imprese fallite durante la pandemia, terre o altri beni immobili destinati a passare nelle mani della malavita, coperta da prestanome di facciata.