di JUAN RASO

Da piccolo conobbi un’unica bottiglia di Coca Cola. Era una bottiglia quarto di litro, un unico sapore, lo stesso contenitore di vetro. Poi apparve la Coca Cola in bottiglia da un litro. Due dimensioni ma con due obiettivi diversi: la piccola me la compravano la domenica al parco se ero stato diligente durante la settimana, la grande si apriva in occasione di compleanni. Oggi gusti, contenitori e dimensioni sono completamente differenti: bottiglie piccole, grandi, da un litro o due o anche mezzo; gusto classico o “light” o “zero”; contenitori di vetro, plastica o alluminio e via dicendo. Dall'antica uniformitá di gusti e dimensioni, siamo passati ad una vasta gamma di prodotti differenti nel sapore, le dimensioni e l'apparenza. Ho fatto l’esempio della celebre bibita, ma potrei riferirmi a qualsiasi altro oggetto: orologi, automobili di ogni colore, cellulari piucchemai differenti, e la moda del vestire, che cerca di farci apparire il piú differenti possibili.

Uso il verso “apparire” nel verso giusto, perché viviamo in una societá nella quale l’“apparire” é piú importante che l’“essere”. Possiamo “essere” simpatici o antipatici, allegri o depressi, intelligenti o ignoranti, ma le apparenze sono quelle che contano e piú siamo differenti, piú siamo valutati nelle vetrine digitali. I variegati sapori e forme delle bibite si sono proiettati nella nostra volontá di essere diversi, o meglio... apparire diversi. Vogliamo apparire dissimili dall’altro, anche se sotto le forme esistono le debolezze e le fragilitá che ogni essere umano porta con sé da sempre. Non sono convinto se la differenzialitá é un bene o un male - e tanto, per chiarirlo - la rispetto molto. Solo voglio precisare che non sempre é stato cosí. Ho vissuto i tempi della “cultura della uniformitá”, dove il rapporto fra i cittadini, le istituzioni e il consumo era ragionevolmente piú omogeneo.

La cultura della uniformitá - che si traduceva nella costruzione di solidarietá tra i membri di gruppi simili - determinava un mondo ragionevolmente sicuro, dove ognuno aveva il suo posto a tavola: il ricco imprenditore, il professionista, l’impiegato, l’operaio. È vero che era un mondo dove eravamo divisi per fasce, ma dentro ad ogni fascia ci sentivamo ragionevolmente uguali. Era un mondo dove la societá e le istituzioni contribuivano a renderci uniformi: la scuola, la radio e la televisione, la religione, la política. Quel modo di vivere in societá permetteva a chi faceva il proprio dovere, di raggiungere un benessere minimo. Il benessere non era necessariamente avere molti soldi, era vivere in casa, poter mettere su una famiglia ragionevolmente unita, andare in pensione come premio di una vita di lavoro. Era naturale che avessimo problemi comuni, ma proprio la comunanza dei problema ci univa, costruiva la solidarietá (solidarietá nel sindacato, solidarietá in Chiesa, solidarietá tra i giovani e gli anziani, solidarietá nel partito).

Oggi - come la bottiglia della Coca Cola - tutto è cambiato. Noi siamo cambiati, gli altri sono cambiati. La moda, le comunicazioni, internet ci hanno proiettato ad un mondo globale molto uniforme nella sua sostanza, ma che fa della differenza un prodotto di consumo. Le tecnologie, il mercato mondiale in tempo reale ci hanno mostrato che é possibile avere tutto… ma solo in teoría. Nel mondo dell’uniformitá si creava una famiglia perché si voleva lasciare la famiglia di origine: era una societá che aiutava a costruire il rapporto di coppia, una sessualitá considerata peccato prima del matrimonio, la ricerca dell’indipendenza come una affermazione di “noi coppia” separati dai nostri genitori. Oggi i giovani non hanno bisogno di lasciare la famiglia per avere sesso, vivere in coppia, viaggiare soli, etc. Ma – il paradosso! – i giovani non sanno bene como abbandonare la casa dei genitori.

Ieri “gli altri” erano abbastanza simili a noi; oggi gli altri sono la gente di altre nazionalitá, di diverso colore, di diversa religione, di diverso orientamento sessuale, di capacitá differenti. In Italia ci siamo noi e gli extracomunitari; in Uruguay, noi e quelli dei “barrios marginales”. E dappertutto vi sono tossicodipendenti, malati inguaribili, handicappati, delinquenti. I vecchi sono diventate persone da parcheggiare in case di riposo, perché non sono belli ed agili como la dottrina edonista esige a tutti. Oggi possiamo discutere su tutto e le nostre reti danno forza alla nostra voce “differente”, a paradossalmente si crea uno spazio ogni volta più ampio di incomunicazione tra noi e gli altri, tra noi e le istituzioni tra noi e il mondo. Un bene, un male? Ripeto: non lo so. Ma mi piace concludere con una riflessione di Emil Cioran, filosofo e scrittore franco-rumeno del secolo scorso, ancora oggi molto attuale: “Se potessimo vederci con gli occhi degli altri, scompariremmo all’istante”.