Nove giornalisti sono stati uccisi (otto in Sicilia e uno in Campania) mentre pubblicavano notizie inedite sulla mafia. Ognuno di loro sapeva bene che rischiava la vita mentre faceva inchieste, svelava retroscena di clamorosi delitti, denunciava collegamenti fra mafiosi, politici corrotti, imprenditori complici, e “pezzi” di Stato conniventi. Ognuno di loro sapeva di rischiare la vita e ha affrontato questo rischio a viso aperto, mosso da una cieca passione per la verità che lo ha spinto a dominare la paura, a tapparsi le orecchie per non sentire i richiami alla prudenza delle persone più care. E’ molto interessante scoprire come sia potuto accadere, scorrendo le pagine del sito www.giornalistiuccisi.it curato da Ossigeno per l’Informazione. Cosimo Cristina aveva 25 anni. Nel 1960 aveva scoperto che nella sua Termini Imerese la vecchia mafia stava cambiando pelle entrando nel mercato della droga. Continuava a raccontarlo nonostante le minacce. Anche Giovanni Spampinato aveva 25 anni quando svelò sulle pagine de L’Ora che la sua Ragusa, celebrata come la paradisiaca provincia “babba” (ovvero non mafiosa) era il terminale di intrecci politico-mafiosi con risvolti terroristici. La stessa giovane età aveva Giancarlo Siani che rivelò l’evoluzione mafiosa e affaristica di alcuni clan camorristici dell’area vesuviana e il retroscena di un patto stretto fra i clan Nuvoletta e Bardellino. Peppino Impastato, che aveva 30 anni e divenne giornalista dopo morto, aveva la mafia in famiglia e svillaneggiava via radio un grande boss che abitava a “cento passi” da casa sua. Gli altri non erano così giovani. Erano uomini fatti. Come Mauro Rostagno, 46 anni, che era stato leader del movimento studentesco a Trento e uno dei fondatori di Lotta Continua e poi del circolo culturale “Macondo”, e aveva scoperto il giornalismo dietro alle telecamere di una tv locale nei pressi di Valderice (Trapani). Come Beppe Alfano, 48 anni, un insegnante con la passione del giornalismo che accese le luci sugli scandali politico-mafiosi della sua Barcellona Pozzo di Gotto. Alcuni di questi nove erano giornalisti affermati, di lunga esperienza. Come Mauro De Mauro, 49 anni, una firma brillante del giornale L’Ora. Come Mario Francese, 53 anni, cronista di punta del Giornale di Sicilia, fra i primi a segnalare lo sbarco dei “corleonesi” di Totò Riina a Palermo. Come Pippo Fava, 63 anni, che aveva una lunga carriera, era direttore e fondatore del suo giornale e aveva messo a frutto la sua esperienza di scrittore e drammaturgo per sbattere in faccia ai suoi lettori la faccia mafiosa di Catania. Otto sono stati uccisi in Sicilia fra il 1960 e il 1993. In nessun paese europeo si è registrata una ecatombe come questa. Fabio aveva 48 anni quando fu ucciso il 19 maggio del 2010 a Bangkok, colpito da un proiettile in dotazione all’esercito thailandese. Era nato a Monza e “aveva ben presto scelto il mondo come casa e la fotografia come un caleidoscopio per raccontarne le mille realtà diverse: dalla moda al reportage nei luoghi dimenticati”, ricorda il sito a lui dedicato. Nella capitale tailandese stava documentando la fase finale della protesta del movimento antigovernativo delle “Camicie rosse”, che da due mesi invocavano elezioni anticipate. Quel giorno l’esercito pose con un blitz sanguinoso la parola fine a settimane di scontri che avevano già causato decine di morti e di feriti da entrambe le parti. Fabio cadde colpito al cuore da un proiettile che lo raggiunse alla schiena, mentre fuggiva insieme ai manifestanti. L’esercito continuò a negare di avere mai colpito civili, ma il 29 maggio 2013 la sentenza di un processo penale, per il quale si era tenacemente battuta la sorella Elisabetta, stabilì invece che Fabio era stato colpito con un fucile dei militari, pur senza individuare le responsabilità personali per quella morte. Elisabetta sarebbe morta per tumore nemmeno un anno dopo, a Milano: per la memoria del fratello aveva già messo a punto un progetto, in accordo con alcuni parlamentari tailandesi, di un monumento alla libertà di informazione da collocare a Bangkok. Introverso nonostante il sorriso sempre aperto, testimonia chi lo conosceva, Fabio preferiva non parlare di sé. Sono le sue fotografie a testimoniare il suo cammino, dagli anni di lavoro per le grandi riviste di moda alla voglia di raccontare realtà più complesse, umane e sociali, coltivando la sua parallela passione per il reportage. Dal Kosovo al Brasile, il Sud Africa, la Cambogia, il Myanmar, passando per il Kenia, Sierra Leone, Messico, Honduras, Cuba, Cina, Giappone, Corea, Nepal, India. Non è uomo dallo scatto mordi-e-fuggi, Fabio, vuole essere parte di ciò che testimonia e entrare in empatia con i suoi soggetti, nella speranza di dare così anche un contributo per un mondo migliore. I suoi ultimi scatti li troverà Elisabetta, che li raccoglierà in un libro pubblicato nell’aprile 2013 a Bangkok, dove per molti Fabio era diventato un mito. Si intitola Bangkok Last Pictures 2010 e mostra in copertina il logo RFP, Reporter for Passion.