di Vincenzo Vitale

In Italia pare che il numero dei nullatenenti – cioè di coloro che si trovano sotto la soglia di povertà – si sia tragicamente incrementato negli ultimi anni, fino a raggiungere i cinque milioni di persone, cioè quasi il dieci per cento della popolazione.

Si tratta di persone che, per la crisi economica, per quella pandemica, per errori personali, per sfortuna, per perfidia altrui, si trovano in grande difficoltà economica e che sarebbe necessario aiutare rapidamente: si pensi agli imprenditori falliti per l’esosità del sistema bancario o per mancati pagamenti della Pubblica amministrazione, ai padri separati costretti a vivere in automobile per mancanza di denaro, ai negozianti debellati dalle chiusure dovute alla epidemia. Tutti costoro hanno diritto ad un aiuto reale e rapido da parte dello Stato. Ma ciò non accade. Anzi.

Superiore al numero dei nullatenenti in Italia è quello dei nullafacenti, vale a dire di coloro che riescono a sbarcare il lunario – ovviamente senza scialare – ma senza mai lavorare o lavorando il minimo indispensabile e comunque sempre ben al di sotto di quanto sarebbero tenuti a fare: si pensi a quanti, impiegati nella Pubblica amministrazione, riescono a profittare in modo strategicamente funzionale di leggi, regolamenti, accordi sindacali, allo scopo di passare a casa quattro giorni su cinque lavorativi o a quanti, avendo ricevuto il reddito di cittadinanza, invece di darsi da fare per trovarsi un lavoro, se ne stanno sul divano in attesa che qualcuno lo trovi per loro, mentre in realtà gli stessi “navigator” che quel lavoro dovrebbero trovare stanno per perdere il loro (ammesso che mai ne abbiano avuto uno).

Campione del mondo da tutti riconosciuto di questi nullafacenti è senza dubbio quell’infermiere calabrese che, secondo le recenti cronache, è riuscito a percepire un regolare stipendio mensile senza lavorare un solo giorno nell’arco di ben quindici anni: neppure un solo giorno. Dicono i bene informati che costui sia in procinto di organizzare corsi serali molto ben pagati per insegnare agli altri come fare e che sugli introiti che ne deriveranno egli pensi di costruire una fortuna, lavorando ovviamente pochissimo, anzi quasi nulla.

Tuttavia, ancora più elevato è il numero dei nullapensanti, di coloro cioè che, avendo delegato ad altri la fatica del pensiero, si limitano a ripetere in modo del tutto acritico gli argomenti addotti da altri in tutte le situazioni possibili e indipendentemente dal contenuto degli stessi. Costoro, davvero numerosissimi, si compiacciono del parere espresso in modo saccente dall’esperto di turno – virologo o economista che sia – lo condividono subito in chiave fideistica, se ne fanno inconsapevole scudo in ogni discussione, guardandosi bene da ipotizzare una qualche domanda che possa revocarne in dubbio la fondatezza, giungendo a disprezzare gli altri, cioè coloro che volendo ancora e nonostante tutto pensare, vengono accusati di essere nemici del popolo, polemisti a tempo perso, inguaribili suscitatori di discordie: un dramma di Henrik Ibsen, dal titolo appunto “Il nemico del popolo”, esemplifica benissimo quanto qui sostengo. Il nullapensante mette in pratica peraltro il suo decalogo, dotato di alcuni inderogabili comandamenti.

Primo. Mai dubitare del parere dell’esperto, in qualunque settore dello scibile egli predichi.

Secondo. Mai perciò fargli domande se non di pura cortesia.

Terzo. Affidarsi ciecamente a protocolli terapeutici, circolari ministeriali, programmazioni generali, linee guida, cioè a tutta una costellazione di mezzi di pianificazione concettuale, tanto astratta quanto irreale, dettata allo scopo di evitare appunto che si pensi con la propria testa.

Quarto. Mai ipotizzare critiche o immaginare errori delle autorità deputate al soddisfacimento del bene comune: esse sono infallibili per definizione. Il governo – specie se di sinistra – ha sempre ragione.

Quinto. Affidarsi ciecamente al “mainstream”, vale a dire al pensiero dominante indipendentemente dal settore di cui si discute (sanità, infrastrutture, migrazioni, adozioni di coppie gay).

Sesto. Mai ipotizzare critiche ad una forma di sapere, provenienti da saperi diversi: per esempio, le critiche alla riforma della scuola sono legittimati a farle solo gli insegnanti, non altri (avvocati, medici).

Settimo. Avere e manifestare “fede” nella scienza e negli scienziati.

Ottavo. Non leggere libri, se non quelli di Gianrico Carofiglio e di Antonio Scurati: mai, assolutamente mai, i grandi classici dell’antichità e neppure quelli dell’Ottocento e novecento europeo; la poesia poi del tutto bandita.

Nono. Non criticare mai e per nessun motivo le sentenze dei giudici, che sono per definizione sempre corrette.

Decimo. Dividere sempre le persone in “buoni” e “cattivi”, assimilandosi ai primi e allontanando i secondi.

Potremmo continuare ma meglio fermarsi qui. Se coloro che osservano scrupolosamente il decalogo sopra sintetizzato si manifestano quali nullapensanti, in quanto del tutto incapaci di formulare un pensiero critico in modo autonomo e logico, quali sono i rapporti con i nullatenenti e con i nullafacenti? Diciamolo subito. I nullapensanti si collocano come trasversali e inossidabilmente presenti ovunque. Così potremo avere nullatenenti e nullafacenti che sono anche, ma non necessariamente, nullapensanti. Non è affatto certo, infatti, che i nullapensanti siano di necessità anche nullatenenti o nullafacenti, ma potrebbero esserlo occasionalmente.

I nullapensanti inoltre non sono soltanto pervasivi, cioè capaci di diffondersi ovunque, ma anche assai contagiosi, cioè votati a sollecitare tendenzialmente tutti a nullapensare, a divenire compiutamente nullapensanti. I vantaggi sono considerevoli. Si può restare tranquillamente per ore ed ore davanti al televisore ad assistere ai programmi di Barbara D’Urso o di Maria De Filippi, come nulla (appunto, nulla!) fosse; ci si può intrattenere con i programmi di approfondimento politico più insulsi e inutilmente logorroici; si può ingannare il tempo inebetendosi con i videogiochi; si può leggere e credere ai giornali come fossero Vangelo; si può provare ancora un’ebbrezza di piacere, ascoltando il Verbo dispensato dai virologi e infettivologi; si può perfino credere che i vaccini siano davvero vaccini; si possono passare pomeriggi sulle pagine oltre che di Scurati e Carofiglio, anche (pensate che goduria!) di Nadia Terranova… insomma, viene assicurata una esistenza serena e scevra da inquietudini.

Quelli che invece si ostinano a pensare non possono godere di simili privilegi, rimanendo condannati, dal momento che non cessano di porsi domande, ad uno stato di inquietudine perenne, che alla lunga diviene un abito mentale. Non a caso, appuntava nel suo diario Julien Green: “…finché saremo inquieti, possiamo stare tranquilli”.

Ma i più tranquilli di tutti sono quelli che stanno al Governo, che infatti amministrano dando mostra di ineguagliabile tranquillità dovuta proprio alla moltitudine di nullapensanti che affollano le piazze e i salotti televisivi come ospiti o come spettatori. Il perché ce lo spiega quel pensante e perciò inquieto spirito di Karl Kraus, che annotava: “Tutta la vita dello Stato e della società è fondata sul tacito presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi tipo di situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo”.