di VINCENZO NARDIELLO

Funziona. Funziona ma non basta. Le previsioni economiche della Commissione europea per l’Italia, che fissano l’aumento del Pil al 4,2% quest’anno e al 4,4% nel 2022, sono state salutate da un coro di evviva che appare eccessivo. Proprio questi numeri, semmai, sono la conferma più chiara della gravità della crisi economica in cui ci dibattiamo. Perché se nel solo 2020 abbiamo perso l’8,9% del Pil - cioè il 30% in più della media europea - e nel 2021 recupereremo il 4,2% grazie all’effetto positivo del Recovery Plan, vuol dire una sola cosa: che nonostante la spinta dei fondi europei il divario tra l’Italia e l’Europa è destinato ad allargarsi invece di restringersi. Dovremo attendere il 2022 e forse - forse - riusciremo a tornare quasi ai livelli pre-Covid. Che sono quelli di una Nazione che non cresceva da 20 anni ed era già falcidiata dagli effetti della grande crisi finanziaria del 2007/2008.

La nuda realtà dei numeri è questa. E dimostra una cosa semplice: il Recovery Plan è un progetto valido ed economicamente conveniente, ma da solo non basta. Se tutto andrà bene sarà utile solo a ridurre i danni. Fin qui la cattiva notizia. La buona, però, è che se riusciremo a rimuovere gli ostacoli strutturali che impediscono alla nostra economia di crescere in maniera stabile, grazie a quei soldi potremo programmare un ciclo di espansione più solido e durevole nel tempo. Per farlo, però, vanno eliminati tutti gli impedimenti agli investimenti pubblici e privati. I segnali sono già apprezzabili nelle ultime statistiche dell’Istat: l’industria è di fatto ripartita, e con la progressione di vaccinazioni e riaperture tornerà a fatturare anche il terziario. I problemi che abbiamo davanti sono enormi, ma almeno ora abbiamo la possibilità di fare scelte che mobilitano capitali produttivi - soprattutto per il Sud - in una dimensione senza precedenti.

Il Recovery, unito agli altri fondi, ha una potenza di fuoco di 248 miliardi di euro. Tuttavia, per cogliere quest’opportunità dovremo prima vincere la sfida dei progetti e della capacità di realizzarli. Decisivi in questo senso saranno il decreto semplificazioni, le riforme della Pubblica amministrazione, della giustizia civile e una governance del Piano chiara e certa, fuori da clientelismi e affarismi che ci condannerebbero a sicuro fallimento. La grande scommessa è utilizzare questo debito per accendere il motore dello sviluppo, facendo in modo che quando l’aiuto della Bce finirà (tra non molto) l’Italia cammini da sola. Se ce la faremo, se riusciremo a ridurre il gap Nord-Sud, potremo uscire dal circolo vizioso di chi finora ha cercato di risolvere tutte le situazioni di crisi facendo sempre più debito. Mario Draghi lo sa. Ma da solo non può riuscirci. È necessario che i partiti - o quel poco che ne resta - si mettano in testa che bisogna concentrarsi su questo.

Il rischio da evitare è che l’Europa riparta, gli stimoli monetari vengano ridotti e noi si resti ancora qui a chiacchierare della guerra tra Conte e Casaleggio, dei veleni del Csm e di un’ora in più o in meno di coprifuoco. Occorre mettere la testa sui numeri, i fatti e capire quanto profonda e strutturale è la crisi italiana per porvi rimedio al più presto. Anche perché all’orizzonte c’è la fine del blocco dei licenziamenti. Oltre un mese fa avevamo lanciato l’allarme inflazione, avvertendo che occorreva fare presto ad approfittare delle condizioni di mercato favorevoli per impostare un programma di ripresa, perché la bonaccia non sarebbe durata in eterno. Segnaliamo che il Btp a 10 anni ha appena raggiunto il nuovo picco da settembre 2020, con il rendimento del decennale italiano salito di nuovo oltre l’1%. Per capirci: è come essere tornati al governo Conte. Per ora è solo un campanello d’allarme, ma la deriva va fermata prima che sia troppo tardi. Basta propaganda. Muovetevi.