Gente d'Italia

Il mondo é a caccia delle materie prime: sono poche e diventano sempre più costose

di Claudio Paudice

Legname, ferro, acciaio, rame, greggio, soia, grano: non c'è materia prima che negli ultimi mesi non abbia visto lievitare il suo costo via via che le speranze di una uscita dalla pandemia si sono fatte concrete grazie ai vaccini. Analisti e osservatori sono concordi: il prezzo in costante aumento e, soprattutto, la loro scarsa reperibilità rappresentano una seria minaccia per la ripresa post-Covid.

Gli allarmi che stanno arrivando dal mondo produttivo confermano questi timori: il mondo edile vede a rischio la ripartenza del settore e l'efficacia di una delle misure cardine del Recovery Plan e dei fondi complementari, il Superbonus al 110%, a causa del prezzo del cemento e dei metalli; quello siderurgico fa i conti con costo e carenza dell'acciaio; la filiera dell'auto dà per scontate le difficoltà nel reperire i semiconduttori (chip) almeno fino al 2022; la carenza di container ha fatto quintuplicare i noli, stressando ancora di più le catene di fornitura già piegate dalla pandemia.

Secondo l'ufficio studi di Confartigianato, il caro prezzi delle commodities costa alle aziende italiane qualcosa come 19 miliardi di euro sull'anno. I numeri descrivono meglio delle parole la portata dell'accelerazione dei prezzi: il rame si è apprezzato del 47% rispetto ai livelli pre-crisi, il grano del 12%, la soia del 15%, il legno per pallet del 20%, il nichel e lo zinco del 51%, l'alluminio del 26%, il petrolio dopo il crollo dell'anno scorso in territorio negativo è ormai tornato sui livelli pre-crisi, col Brent intorno ai 70 dollari a barile. Cosa sta succedendo sul mercato delle materie prime? E, soprattutto, quali saranno le conseguenze?

Per capirlo bisogna fare un passo indietro e partire dalle strategie di uscita dalla pandemia messe in piedi dagli Stati Uniti e dalla Cina. "Le due potenze hanno preso di petto la crisi, molto più nettamente rispetto al 2008, con consistenti stimoli fiscali e monetari", spiega all'HuffPost Gianclaudio Torlizzi, esperto del mercato di materie prime e direttore generale della società di consulenza finanziaria T-Commodity. "Solo negli Usa, se uniamo gli stimoli della presidenza Biden con quelli messi da Donald Trump, si parla di circa cinquemila miliardi di dollari che per essere assorbiti hanno richiesto un forte intervento - una monetizzazione del debito, di fatto - da parte della Federal Reserve, che oggi controlla circa il 20% dei titoli di Stato americani".

Analogo discorso vale per la Cina. Gli analisti che all'alba della pandemia si aspettavano l'Armageddon sono rimasti spiazzati dalle risposte messe in campo da Washington e Pechino, cifre di gran lunga più importanti di quelle messe sul piatto da Bruxelles, e certamente più efficaci nell'evitare che l'economia mondiale si avvitasse, ponendo da subito le basi per la ripartenza. Basti pensare che il prodotto interno lordo cinese, nell'anno del Covid, è cresciuto comunque del 2,3%, nonostante le chiusure e i lockdown molto stringenti in certe fasi.

Cosa è accaduto quindi? "Se escludiamo i settori più colpiti come ristorazione e turismo, una fetta importante della popolazione, in particolare negli Stati Uniti, si è ritrovata nel mezzo della pandemia con del risparmio accumulato, impiegato poi in buona parte in prodotti tech ed elettrodomestici, un comparto produttivo che necessita di metalli e semiconduttori. Da qui arriva un primo impulso alla domanda di alcuni materiali, ma è solo una delle cause dietro la carenza di materie prime", spiega Torlizzi. Hanno giocato un ruolo anche le politiche per la transizione ecologica volte a combattere il climate change. L'attenzione giustamente ossessiva dei leader politici per un graduale ma deciso passaggio verso un'economia meno inquinante e più sostenibile ha indubbiamente favorito posizioni rialziste sulle materie prime necessarie per rendere la svolta green una realtà nel lungo periodo.

L'esempio più immediato viene dalla mobilità elettrica: "Un'automobile di ultima generazione necessita di 80 chilogrammi solo di rame, un metallo che quest'anno ha visto un mercato profondamente sbilanciato, con un deficit di 4,5 milioni di tonnellate quando normalmente registra un surplus di 200mila tonnellate". In parte ha contribuito anche la Cina, sempre in chiave di lotta al climate change ma dal lato dell'offerta, che ha chiuso diversi impianti del Paese tra i più inquinanti. "In pratica l'offerta dei metalli non è stata al passo con la domanda vista la riduzione della capacità produttiva/estrattiva". E pensare che la Cina assorbe da sola circa la metà di acciaio, rame e alluminio prodotti nel mondo.

Insomma: una serie di fattori legati all'impatto del Covid sulle catene di approvvigionamento ha generato una grave penuria di materie prime. Gli effetti sono diversificati e diffusi in una buona parte del mondo produttivo. Prendiamo l'esempio dei semiconduttori, i chip che oggi vengono impiegati in tutti i dispositivi tecnologici di largo consumo, come smartphone, pc, tablet e laptop, negli elettrodomestici e nell'industria della difesa. Ma, soprattutto, nelle automobili, dal momento che l'elettronica rappresenta ormai il 40% del valore di un veicolo moderno. Per stare all'Italia, Stellantis ha interrotto la produzione nello stabilimento di Melfi per diversi giorni a maggio. Scelte simili sono state fatte dai più grandi gruppi dell'automotive del mondo: Ford si attende un calo del 50% della produzione nel secondo trimestre dell'anno; Mitsubishi fabbricherà 16mila auto in meno, circa un quinto della produzione complessiva; Jaguar ha bloccato le linee in alcuni impianti in Uk. Anche Audi, Volkswagen, Renault, Subaru e altre case hanno dovuto fare i conti con la penuria di semiconduttori e tagliare le stime per il 2021. L'impennata di contagi per Covid registrata negli ultimi giorni a Taiwan dove ha sede la TSMC, la più grande fonderia di semiconduttori dalla quale tutto il mondo si rifornisce, sta facendo tremare l'intero tessuto industriale che ruota intorno ai chip.

Tornando alle materie prime, il dato che subito salta all'occhio è il prezzo, schizzato alle stelle in maniera diffusa e che ora molti temono possa trasferirsi sui beni di consumo. "Certamente ci sarà un impatto sui beni acquistati, è chiaro che l'incidenza delle materie prime è più tenue nelle economie avanzate grazie a reti di distribuzione e concorrenza, e grazie alla possibilità di far leva sulla produttività delle imprese. Il pass through delle materie prime sugli indici dei prezzi al consumo è del 15%. Ma un impatto, e su alcuni prodotti in particolare, ci sarà".

Secondo Torlizzi, il problema è anche politico. "In una situazione di grave carenza di metalli, in particolare con l'acciaio, l'Unione Europea appare intenzionata a prorogare le misure di salvaguardia sulle quote all'import dai paesi extra Ue". Si tratta di un freno per ridurre l'appetibilità dei materiali e prodotti che vengono dall'Asia. Per scoraggiare le importazioni da Paesi extra Ue vige pertanto un dazio del 25% su alcuni prodotti dell'acciaio importati oltre una quota prestabilita. "Questo 'muro' è comprensibile in condizioni normali se serve ad arginare il dumping asiatico, ma in una situazione di deficit come quella attuale il freno alle importazioni non ha ragione di esistere".

L'incredulità è condivisa anche dal mondo produttivo: "Abbiamo fatto presente, poiché è un fatto che riguarda tutta l'economia e non soltanto noi, che forse la sospensione dei dazi sull'importazione in momento in cui c'è penuria di acciaio, è importante perché è la materia prima che più consumiamo", ha detto pochi giorni fa l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono. La penuria fa "aumentare i prezzi", un elemento che "le autorità devono prendere in considerazione, ci può danneggiare".

"La nostra struttura industriale", scrive in una lettera rivolta al Governo la Confederazione della piccola e media industria privata (Confapi), "è messa a dura prova, oltre che dalle conseguenze della pandemia, dall'improvvisa accelerazione verso l'alto dei prezzi delle materie prime industriali - acciaio, plastica, legno - pesantemente aggravata dalla loro scarsità sul mercato, con la conseguente frattura tra domanda ed offerta che pare difficile colmare nel breve termine".

Perché i prezzi sono una faccia della medaglia, l'altra non meno importante è la difficoltà nel reperirle, che al momento non sembra far perdere il sonno ai decisori politici nazionali ed europei. "C'è una sottovalutazione da parte dei policymaker, temo - continua Torlizzi - che da qui a due mesi ci sarà un'esplosione di cassa integrazione, se non si porrà rimedio alle gravi carenze che stiamo registrando, in particolare nell'acciaio. E sarebbe assurdo visto che gli ordini alle imprese ci sono".

Tutto ruota intorno alla necessità di rifornire le scorte. "Con il caro prezzi delle commodities e dei container, e con le potenziali nuove interruzioni lungo le catene di fornitura, le aziende hanno paura di ritrovarsi nei prossimi mesi con i magazzini scarichi". Questo è il motivo per cui nonostante i costi elevati, gli ordinativi continuano a essere sostenuti. Ma non sarà così per sempre. "Larga parte degli ordini è guidata dal timore di non avere scorte sufficienti e di dover fare i conti nei mesi successivi con prezzi ancora in salita", spiega Torlizzi. Tuttavia, in queste condizioni il rischio di nuovi blocchi degli ordini e della produzione, come all'inizio della pandemia, sono concreti: "Già oggi vediamo segnali preoccupanti che ci arrivano dalle imprese".

La necessità di avere magazzini sempre riforniti a dovere non è un aspetto marginale, anzi gioca un ruolo centrale nella determinazione dei prezzi. Ad aprile dell'anno scorso, per la prima volta nella storia, il barile di greggio è finito in territorio negativo, sfiorando i -40 dollari. La ragione? Le scorte erano al massimo, le aree di stoccaggio quasi sature, e nessuno prevedeva una ripresa a breve delle attività economiche e produttive capace di assorbire il surplus in circolazione. Si è innescata una svendita di massa dei contratti futures del petrolio con la scadenza ravvicinata per spostarsi su quelli a scadenza più lontana. Ora il trend è totalmente capovolto. "Il petrolio rischia di rappresentare la 'seconda ondata' per l'economia mondiale. Già oggi il prezzo di un barile di Brent è tornato sui 70 dollari, avvicinandosi ai livelli pre-pandemia, sebbene i viaggi internazionali siano ancora lontani dal tornare su livelli normali. Quando saranno di nuovo a regime, gli effetti dell'aumento dei prezzi saranno ancora più visibili".

L'insieme delle dinamiche inflattive legate alle materie prime trova il suo punto di caduta macroeconomico nella stagflazione: "Già a partire dal secondo semestre, se non ci saranno rimedi adeguati, rischiamo di dover fare i conti con un fenomeno che non vedevamo più dagli anni Settanta", con prezzi in costante aumento accompagnati da una crescita reale sostanzialmente stagnante, proprio come accaduto dopo lo choc petrolifero del 73-74 seguito alla guerra del Kippur. Un salto indietro nel passato, in un momento storico in cui la voglia di guardare al futuro dovrebbe guidare l'economia fuori dalla pandemia.

Exit mobile version