di Franco Manzitti

Non si può pensare che il rimbombo da tuono dei gol e dei grandi gesti di calcio, saliti al cielo dall’ombelico di Genova, stadio di Marassi, ValBisagno, accanto a quel fiume cattivo di alluvioni dannate, non arrivi più laggiù oltre il mare, oltre l’Atlantico.

Si perché oggi le immagini delle partite, con tutte le diavolerie che si sono aggiunte nei tempi lunghi, di cronaca, interviste, commenti dibattiti, moviole, skytek, non partiranno più per quella sponda così lontana, ma anche così vicina.

Le decisioni sciagurate della Rai fermano la “Giostra”, ma tranciano anche quel rimbalzo che una volta era solo la notizia, il risultato, lo score, che poi è diventato tutto della partita, la sua storia, nel mondo collegato e globale.

Era un rimbombo, appunto, come quello che da bambini non ancora ammessi nel tempio del mitico Marassi si udiva nelle domeniche di una volta, tra le 14,30 e le 16, nel silenzio della Superba, rappresa intorno a quello stadio, dove giocavano o il Genoa, Cricket and Football Club, l’anima fondatrice del calcio in Italia o la Sampdoria, i cugini arrivati dopo la guerra, a scatenare derby tutt’ora contesi come guerre di religione.

Allora l’urlo del gol moltiplicato dalla folla compatta sulle vecchie gradinate trasmetteva la notizia come un lampo nel cielo di questa città di mare e aspre colline alle spalle, come se  dovesse imbarcarsi sulle navi (allora si chiamava piroscafi) ormeggiati nel grande porto, ventre della città.

E un po’ era così. Genova, il porto, il mare e il calcio. Dall’altra parte del mare, dalle Americhe, verso le quali partivano  le navi degli emigranti, con i fazzoletti bianchi a sventolare, le lacrime di addii spesso totali, definitivi, c’ era l’arrivo nel nuovo Mondo.

Ma spesso c’era anche la ripartenza, quando sopratutto dall’Argentina e dall’Uruguay arrivavano i campioni, i grandi calciatori, gli “oriundi” dai nomi epici, Stabile, quello che sbarcato di fresco da Buenos Aires scese il giorno dopo sul prato di Marassi fece quattro gol mitici alla faccia della traversata atlantica. Oppure Julio Cesar Abbadie, l’uruguayo del Penarol, che arrivò a incantare per anni e anni e restare nel cuore dei rossoblù genoani, o dopo Pato Aguilera, un altro uruguayano piccolo e nero, con i piedi fatati, che negli anni Novanta faceva impazzire  il vecchio stadio. O infine Diego Milito, l’ultima grande stella che ancora fa sognare le generazioni di tifosi e che se ne è tornato in Argentina.

Quel filo di tifo, rinforzato dalle moderne tecnologie, dalla possibilità di trasmettere subito e bene e di far salire sulla grande Giostra non solo i tifosi lontani, quelli acquisiti per tradizione, ma anche per passione pura e interesse verso uno dei campionati più seguiti al mondo, ora subisce un colpo terrificante, come un taglio secco.

Aguilera, Milito e tanti altri che avevano come un appuntamento settimanale non solo con la loro storia personale di campioni, ma anche con il mondo al quale erano appartenuti nel successo e nella celebrità, sono solo le punte di diamante di un popolo intero che sarà defraudato e che subirà come un taglio alle proprie radici.

Il calcio, la passione ancestrale, quella atavica risalgono non solo al suono di quel rimbombo da stadio, ma interessano molto più in alto. Toccano la cultura dei propri avi, della quale anche il calcio fa parte. Muovono passioni e interessi che hanno un fronte molto più ampio di quello di una partita da vedere come se si partecipasse davvero.

Genova si mette a capo di una protesta dura, forte non solo perché è la città che diede i suoi natali all’uomo che, guardando quell’orizzonte di mare, intuì il viaggio della grande Scoperta, Cristoforo Colombo, ma perché la sua tradizione di porto e di navi la pone in una naturale posizione di ponte per trasmettere, per comunicare. E una volta sono bastimenti che vanno e vengono, popoli che si spostano e ora sono anche passioni che transitano attraverso le immagini. Se tronchi quelle immagini è come se interrompessi il passaggio sul ponte, limitassi il dialogo, riducessi le relazioni, ti facessi una beffa della storia.

Lo scambio c’è stato anche prima , ma ora che la società moderna ha trovato queste capacità, il feeleng era molto più forte, quotidiano, continuo.

Chi non ricorda, durante un viaggio americano di essersi collegato con trepidazione, ma anche con passione alla tv che trasmetteva dall’Italia la sua “partita” del cuore. A me è capitato da New York di interrompere una riunione importantissima per correre a vedere le maglie dei miei giocatori nella partita della domenica pomeriggio. Erano le prime ore della mattina, ma era come se  fossì là, dentro a quello stadio del rimbombo.

E quante volte ai campioni, tornati laggiù dopo avere mietuto successi e popolarità qua in riva a quel fiume Bisagno di fianco allo Stadio, sono stati chiesti pareri e giudizi sulle partite di oggi? Li ascoltavamo come oracoli, perché sapevamo che avevano visto, che partecipavano, certamente con un pezzo di cuore di qua, ma in grado di spiegare, di interpretare, di rispondere.

Non sarà più possibile? E’ un grande passo indietro e non ci porta a quei tempi del rimbombo rubato da bambini fuori dallo stadio solo perché tutto è cambiato e nel senso dell’informazione così modernizzata da poterti far seguire le partite da casa, davanti alla tua tv.

Qui, ma anche laggiù, dove ci sono i figli dei figli dei figli, di chi è partito di qua, con la nave che muoveva la prua e la poppa da Ponte dei Mille, alla Stazione Marittima e dove ci sono gli altri, che si sono aggiunti sulle onde di una passione, ma anche di una partecipazione molto più complessiva. Impossibile da cancellare con un segnale tv che si tronca per sciagurate decisioni.