di Maurizio Guaitoli

Di quale Islam si parla? Di quello politico (alla Khomeini), fondamentalista o dialogante? Quando si fa riferimento alla fede musulmana e alla sua legge coranica, la Sharjah, allora è bene affidarsi a guide esperte come il politologo Haoues Seniguer, vicedirettore dell’Istituto parigino di studi sull’Islam e sulle società all’interno del mondo musulmano, a partire dall’intervista da lui rilasciata al quotidiano di sinistra “Liberation”.Prima, fondamentale precisazione: l’islamismo nasce con il colonialismo, e funziona inizialmente da amalgama identitario contro la presenza straniera e come antidoto agli effetti negativi derivanti dalla sua dominazione. Mentre nell’accezione del nazionalismo arabo la religione è un “mezzo”, per l’islamismo quest’ultima rappresenta il “fine”. Nella maggior parte dei movimenti fondamentalisti musulmani, l’islamismo nasce per definizione “jihadista” (ovvero, “combattente”), anche se in origine quella definizione non aveva lo stesso significato odierno che la rende sinonimo di terrorista.

Ad esempio, per l’Ennahda tunisina la Jihad non è che un “prolungamento” del nazionalismo, contro lo strapotere occidentale della Technè e della libertà dei costumi. In tale ottica, l’islamismo diviene una risorsa simbolica sacrale per contrastare una potenza coloniale occidentale, che i fondamentalisti considerano intrinsecamente antimusulmana. Da questo punto di vista, il confronto valoriale tra i due mondi contrapposti si fa ancora più interessante.

Tutti i movimenti islamisti difendono a un tempo i valori identitari, religiosi e politici dell’Islam tradizionale. Nella loro convinzione, la vita pubblica deve essere fondata su criteri religiosi e serve una Hisba (una sorta di polizia islamica per la morigeratezza dei costumi) che li faccia rispettare. La domanda che tutti i movimenti rigoristi si pongono è la seguente: “Che cosa ha reso la Terra dell’Islam colonizzabile?”.

La risposta, dal loro punto di vista, è semplice: la rinuncia al rispetto scrupoloso della norma islamica. Pertanto, le cause della decadenza in rapporto all’Europa e all’Occidente non vanno individuate nei problemi di ordine politico ed economico, bensì nell’abbandono da parte dei fedeli delle motivazioni identitarie e religiose. A partire da qui, il fondamentalismo utilizza il fortissimo richiamo simbolico dell’Islam come una sorta di “marcatore sociale” che rappresenta, cioè, uno strumento formidabile per “separare il buono dal malvagio, il puro dall'impuro”. Altre componenti come l’Associazione dei musulmani di Francia praticano il neo-islamismo, nella sua versione legalista in cui si accetta, nel bene come nel male, di rimanere formalmente vincolati al quadro della legislazione francese. Questo, tanto per salvare le apparenze, dato che l’Associazione si è ben guardata da sempre (al pari della sua omologa italiana!) di prendere posizione a favore dei musulmani laici, o di difendere la separazione tra politica e religione nei Paesi musulmani.

Esistono anche movimenti così detti neofrériste (che si ispirano, cioè, alla fratellanza musulmana), che si battono perché l’Islam non sia soltanto una questione privata ma divenga l’oggetto di impegno pubblico nella società civile. Questo perché le correnti neoislamiste ritengono che, grazie all’applicazione dei precetti islamici, sia possibile correggere le storture di una società occidentale immorale e dedita alla perdizione. Si chiede in proposito Haoues Seniguer: “Se è sempre possibile combattere sul piano politico e morale un islamista legalista, contestando la sua visione del mondo, perché poi lo si vuole criminalizzare?”. Esistono, più in generale, i seguenti trelivelli, o facce, dell’Islam: il Conservatorismo musulmano (che si formalizza nei riti halal; nell’indossare il foulard nel caso delle donne e il qamis per gli uomini); l’Islamismo che esige l’impegno politico per la difesa di una determinata interpretazione dell’Islam; il jihadismo, che presuppone il ricorso alla spada per l’affermazione del rispetto integrale dei precetti islamici. Ma, avverte Haoues Seniguer, non esistono passerelle che implichino il passaggioautomatico dall'uno all’altro livello! E occorre fare altresì attenzione, a suo avviso, a quel riflesso pavloviano per cui viene definito islamista chiunque si mobiliti pubblicamente, anche in modo contestatario, per la difesa dei valori dell’Islam.

Occorre invece parlare di conservatorismo religioso (che rifiuta il separatismo) quando si contesta una scelta politica richiamandosi all’ortodossia islamica, senza per questo pretendere che i non islamici rispettino quelle stesse regole! Tutt’altra cosa è l’islamismo radicale, violento e intollerante quando attraverso le sue azioni provoca il ricorso a leggi emergenziali a seguito di attentati terroristici che, per prima cosa, danneggiano l’intera Comunità nazionale, musulmani compresi! Il criterio che aiuta a dividere l’Islam buono da quello cattivo è la volontà di coercizione che separa l’uno dall’altro. Se si tratta, come nel primo caso, di un impegno personale, allora deve essere considerato come una scelta legittima che va combattuta esclusivamente sul piano delle idee. Ad esempio, la componente dei Salafiti quietisti rifiuta le violenze e gli eccidi commessi dagli autori di attentati che si richiamano all’Islam.

Non esiste, secondo Haoues Seniguer, un automatismo (come sostiene invece il filosofo Gilles Kepel) tra rigorismo e il passaggio all’azione violenta, anche se molti movimenti conservatori musulmani tendono a difendere visioni del mondo che sono in netto contrasto con quelle della civiltà occidentale. Pertanto, la vera posta in gioco, quando si parla di trovare un comune e civile modus vivendi con un miliardo e mezzo di musulmani e, soprattutto, con quelli che vivono all’interno delle nostre società occidentali, è la seguente: “Come rendere desiderabili i valori repubblicani agli occhi e alle menti dei conservatori musulmani?”.