di Renato Silvestre
Asmara, capitale dell’Eritrea, è un’esperienza unica agli occhi degli italiani. Dopo mezza giornata smetti di contare le similitudini con l’Italia: gli automobilisti che non si curano dei passanti, i bar che preparano espressi e cappuccini, le gelaterie, i negozi con i nomi di città italiane, le insegne con su scritto “ferramenta”, “farmacia” o “ottica”, le strade rumorose, le chiese cattoliche”.
Vuoi per consuetudine, vuoi per imbarazzo, ogni volta che non si sa da dove iniziare una conversazione, si parte col parlare del tempo. Il tempo meteorologico, in grado, in Eritrea, di muoverti da una stagione all’altra in un solo giorno così da abbronzati al mattino e da gelarti le ossa di notte. Oppure il tempo in senso cronologico, che qui sembra scorrere inutilizzato, inafferrabile, qui il tempo non devi ammazzarlo, perché lui per primo ha già ammazzato ogni tuo velleitario e frenetico programma.
Il tempo che ha decimato il vocabolario dei tanti anziani sorridenti che, con un italiano esotico che solo gli abissini sanno masticare, ti chiamano da un qualche angolo di strada: “Buongiorno Signore”. A quel punto, preso dall’imbarazzo per essere stato chiamato “signore” da chi ha 50 anni più di te, ti ritrovi a stringergli la mano e a farti trasportare dai racconti del pezzo di Italia che hanno vissuto e per cui hanno prestato servizio come lavoratori. Nei loro racconti mitigati dal tempo che rende sempre aulico il passato, non c’è mai rancore per l’Italia, anzi solo pensieri romantici.
Il tempo che sembra aver congelato le strade a 40 anni fa, col traffico pregno di rumorosi e polverosi camion FIAT o Iveco dagli “italianissimi” nomi e vecchi modelli di macchine FIAT che hanno fatto la storia del marchio italiano. Il tempo non ha risparmiato le strade costruite dagli Italiani e che solo in parte sono state ristrutturate, come la tortuosa e affascinante Asmara-Massaua, fiore all’occhiello delle opere italiane.
Il paesaggio naturale sembra poi aver scoperto come ammaestrarlo il tempo, rifugiandosi nel secco marrone dei suoi alberi, nel terreno pietroso che imperturbabili animali brucano perennemente e apparentemente invano. Animali che non conoscono l’orgoglio delle carni tronfie e sazie degli allevamenti intensivi, ma la serenità del pascolo e il piacere del cammino.
Asmara poi, sembra incastonata nel tempo, il tempo del colonialismo italiano con le sue costruzioni Art Déco, lo stile razionalista, le iscrizioni tanto in voga nel ventennio o le lapidi commemorative del re, sempre un pizzico più romantiche di quelle del duce. Asmara è un’esperienza unica agli occhi degli italiani, dopo mezza giornata smetti di contare le similitudini con l’Italia: gli automobilisti che non si curano dei passanti, i bar che preparano espressi e cappuccini, le gelaterie, i negozi con i nomi di città italiane, le insegne con su scritto “ferramenta”, “farmacia” o “ottica”, le strade rumorose, le chiese cattoliche.
Visitare il cimitero italiano di Asmara è un’esperienza affascinante, per chi come me considera affascinante girare per sepolcri. Una distesa di lapidi di civili, soldati, nomi desueti, cognomi per lo più meridionali, statue, iscrizioni commemorative inneggianti alle vite di connazionali che, quasi a voler giustificare la loro presenza in Africa, ricordano quanto sia stato utile il loro passaggio qui. Rifuggo dal rischio di semplificare la complessità delle storie che si potrebbero narrare su queste vite, i cimiteri esigono rispetto, il colonialismo è oggettivamente una cosa abominevole, ma dietro quelle lapidi ci sono anche storie che potrebbero redimere, voglio pensare solo a quelle.
Se devi abbandonare Asmara, se proprio devi, allora mi auguro che tu lo stia facendo per andare a Massaua, a questo punto inizia una discesa di 2300 metri in 110 km, praticamente un lungo e tortuoso scivolo tra le montagne, una strada che per gli anni in cui è stata realizzata, deve aver spremuto non poco le meningi dei progettisti e le schiene dei lavoratori italiani che l’hanno realizzata. Uno slogan del ministero del turismo eritreo recita:”Eritrea, tre stagioni in due ore”. Tra Asmara e Massaua le tre stagioni ci sono tutte e le vedi espresse anche nei differenti paesaggi, partendo dalla fresca e invernale Asmara, passando per una piovosa e autunnale Ghinda, per poi raggiungere l’afa estiva di Massaua.
Massaua conserva poco della multiculturalità di Asmara, la città ha una connotazione più araba, lo leggi nelle costruzioni e nei vestiti neri delle donne musulmane. Il suo porto rifornisce con avarizia il paese, di merci che arrivano dal mare.
Sfuggiti alla timida emancipazione delle città come Asmara e Massaua, vale la pena di visitare i piccoli centri abitati o i villaggi, posti in cui la gente ti saluta anche senza conoscerti, semplicemente perché capisce che sei straniero e i bambini ti corrono dietro urlando “talian” che per loro non significa semplicemente italiano, ma più generalmente uomo bianco.
Il modo in cui un Eritreo esprime la sua ospitalità, è tutto racchiuso nella cerimonia del caffè, un’esperienza che va ben oltre il caffè di per se, ma un rito di conoscenza e di avvicinamento. Tutte le case sono attrezzate più o meno allo stesso modo: un fornello a carbone, lo jebenà (la caffettiera), il mobiletto per le tazze, il mesherefet di paglia, il mortaio per polverizzare il caffè appena tostato e il filtro fatto di crini di cavallo. Una donna, di solito la padrona di casa inizia con pazienza e certosina precisione la preparazione, dopo almeno mezz’ora sarà pronto il primo caffè. Dico primo, perché a quello ne seguiranno altri due (meno concentrati del primo!) e durante queste tre tazze di caffè, si colloca il tempo della conoscenza, della cortesia e della condivisione. Unica accortezza per evitare eccessi di caffeina è quella di fare attenzione a non pianificare troppe visite in una giornata, la cerimonia del caffè è senza dubbio un piacere, ma sottrarsi ad un invito adducendo la scusa di aver preso già il caffè in un’altra casa, non è ahimè contemplato.
Ho iniziato parlando di tempo e concluderei in maniera circolare tornando al tempo, il tempo come contenitore nel quale riversare la speranza che questo paese, ingabbiato in un’era, quella passata in cui la storia lo ha reso un paese africano tra i più emancipati, torni a prendere in mano le redini del suo tempo e lo faccia con determinazione.
Il paese è bello, ma cadente e sorride di una bellezza d’altri tempi.