DI GIANFRANCO ROTONDI

A destra si riparla di partito unico, come ai tempi del predellino, quando Berlusconi - in piedi su una Mercedes - auspicò la fusione di Forza Italia con Alleanza Nazionale.

Stavolta Berlusconi sembra indifferente al tema, ma solo in apparenza: il Cavaliere è annoiato dalle beghe di Forza Italia che lo disturbavano quando il marchio azzurro volava al venti per cento, figuriamoci ora che arranca al sei. Silvio sa bene che è fallita l'illusione di un partito azzurro vocato a moderare il centrodestra sbilanciato sulle estreme: a quanto pare, nessuno ha voglia di votare un partito solo per moderarne altri due. È probabile che Berlusconi stesso cerchi una exit strategy che gli permetta di giocare i numeri elettorali di FI in una partita di nuovo a vocazione maggioritaria.

Nel frattempo è Salvini a calare l'asso del partito unitario del centrodestra, potenziale calamita di un voto moderato tradizionalmente attratto dai partiti con numeri importanti, dalla Dc al Pdl, appunto. Si capisce bene perché Salvini scopra la carta del partito unico del centrodestra: ha sul collo il fiato della Meloni, e la regola della premiership alla lista più votata rischia di travolgere il sogno governativo del Capitano. Elio Vito mette in fila le ragioni per cui Salvini si spende per il nuovo progetto: vuol recuperare una distanza elettorale con la Meloni; vuole annettere Forza Italia; vuole entrare nel Ppe. L'ex ministro azzurro risponde di no a tutte e tre le aspirazioni di Salvini. Sono altri, però, e non meno importanti di Vito, a rispondere di sì: Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, pronto a sostenere la tesi salviniana di un nuovo partito centrista; i direttori delle ammiraglie editoriali del centrodestra, da Libero alla Verità; l'intendenza berlusconiana del Nord, incline ad accomodarsi nella casa elettoralmente confortevole della Lega.

La Meloni appare la vittima designata di questo risiko di fusioni partitiche, non meno avvincente di quello delle fusioni bancarie: anche qui, a ben vedere, si parla di catene di comando e dividendi, seppure  elettorali. Il partitone verdazzurro avrebbe facilmente il primato elettorale. Facilmente, ma non scontatamente: anche alla Meloni rimarrebbero delle carte da giocare. Vediamo quali.

Primo: la carta governativa. Il corollario del partito verdazzurro è il successo del governo Draghi. Esso va verificato nelle torsioni del semestre bianco, e nelle prevedibili tensioni sociali del dopo-pandemia. L'opposizione responsabile della Meloni potrebbe calamitare l'eventuale consenso in caduta del governo.

Secondo: l'Europa. A Bruxelles la Meloni guida il gruppo conservatore, che è dentro l'arco costituzionale europeo. Salvini progetta il centrodestra europeo, ma si fa ancora vedere in giro con Le Pen e Orbán, e pochi gli danno retta tra quelli che contano.

Terzo: anche la Meloni può muoversi verso i moderati. Chi ha detto che solo Salvini può aprire al Centro? Lega e Fdi sono due destre in competizione tra di loro, e quella leghista è più estrema di quella meloniana, ad esempio nelle posizioni cattoliche integraliste che più irritano il mondo cattolico. Non a caso è proprio un settore importante della Curia ad aprire un dialogo per ora discreto, ma potenzialmente significativo con la Meloni.

Infine, non è chiaro perché Forza Italia dovrebbe sostenere la Lega, e non una signora che è stata ministro di Berlusconi, e in fondo un partito con Fi l'ha già fatto: il Pdl.

Insomma, a destra si apre uno scenario dagli esiti non scontati. È auspicabile che da questo processo riemerga la possibilità di dare al Paese un vero partito popolare di massa, plurale e contendibile. Se ne avverte più che mai il bisogno, e non solo a destra.