Tra scuse simpatiche, conversioni goliardiche e proposte di unificazioni improvvisate, c’è una sola novità che può qualificare e scompaginare il quadro politico nazionale attuale. Ovvero, il decollo di una “politica di centro” funzionale alla costruzione di un “partito di centro”. Plurale, riformista e autenticamente democratico. Un centro che non si riduce, com’è stato in questi ultimi anni, a una esperienza politicamente testimoniale e mirata solo al raggiungimento di qualche prebenda personale o posizione di potere. No, il “centro” di cui oggi abbisogna il Paese è qualcosa di più nobile e di più utile per la stessa qualità della nostra democrazia. Non a caso, la stragrande maggioranza degli stessi opinionisti sostiene la tesi - del tutto fondata - che dopo il seppur lento ma irreversibile tramonto del populismo/giustizialista di marca grillina, il risultato delle elezioni sarà legato quasi esclusivamente da chi riuscirà ad intercettare al meglio il cosiddetto “elettorato mediano”. O “di centro” se si vuole usare una terminologia più chiara e percepibile. E questo non solo perché è una costante della politica italiana già sin dal secondo dopoguerra ma per il semplice motivo che proprio con l’eclisse della cultura e della prassi populista si impone, quasi per legge naturale, una diversa articolazione e redistribuzione del consenso elettorale.

E questo spazio politico ridiventa centrale e decisivo per decidere le sorti della stessa contesa elettorale. A cominciare dalle prossime elezioni politiche nazionali. Bene, se questo è vero, è indubbio che il profilo di questo nuovo soggetto politico non potrà che essere plurale, inclusivo, riformista e autonomo. Pur non rinnegando, come recita la miglior tradizione cattolico democratica e popolare, la “cultura delle alleanze”. Una prassi che continua ad essere importante e decisiva per evitare quella deriva autoritaria che esiste sempre dietro l’angolo. E che si traduce, come da copione, o con l’autosufficienza di un singolo partito o con la riscoperta, seppur tardiva e non più originale, della cosiddetta “vocazione maggioritaria”. E anche perché in Italia, per dirla con Mino Martinazzoli, “la politica è sempre stata politica delle alleanze”. E anche il “nuovo e futuro centro”, lo dico con una sciabolata, non potrà fare a meno delle alleanze e del valore centrale e costitutivo delle coalizioni. Ma da una posizione di forza, però, e non come semplice satellite come recitava la vecchia prassi comunista del secolo scorso.

Del resto, è abbastanza evidente che nel momento in cui decolla questo progetto politico - che non può coincidere, per ovvie ragioni, con i movimenti e i partitini personali che oggi pensano di occupare in modo quasi esclusivo quello spazio - il quadro politico nazionale subirà una forte e marcata ristrutturazione. Sia nel campo del centro destra e, seppur in modo più sfumato, anche nell’area della sinistra e del grillismo. Una politica di centro, dicevamo, che ormai è sempre più gettonata per la stessa esperienza di governo. Al di là e al di fuori di questa eccezionale stagione di governo caratterizzata da una larga maggioranza ma guidata, per fortuna di tutti, da una autorevole e prestigiosa personalità come Mario Draghi. Una politica di centro che si sostanzia di alcuni elementi costitutivi e che sono stati rasi al suolo in questi ultimi anni di dominio incontrastato del populismo di marca grillina. E cioè, cultura delle alleanze, cultura della mediazione, capacità di fare sintesi, rispetto delle istituzioni, qualità della democrazia, senso dello Stato, ricetta riformista e, soprattutto, cultura di governo. Un panel politico, culturale ed istituzionale che difficilmente può essere declinato da partiti e movimenti che fanno della radicalizzazione dello scontro politico, della delegittimazione morale e politica degli avversari, dell’improvvisazione al potere e della propaganda populista e moralistica la loro ragion d’essere.

Un luogo politico che non nasce per rispondere ad una esigenza, l’ennesima, di occupare uno spazio di potere ma, al contrario, per rispondere a una esigenza politica e di governo ormai non più aggirabile. Certo, abbiamo grandi esperienze del passato a cui ci si può riferire. Seppur facendo i conti con il profondo cambiamento dei tempi e delle rispettive fasi storiche. Ma è indubbio che senza un soprassalto d’orgoglio di tutti coloro che, giustamente, non si rassegnano ad una competizione puramente muscolare della competizione politica, difficilmente si uscirà da uno stallo preoccupante per la stessa tenuta delle nostre istituzioni. Ecco perché non si tratta di una invenzione a tavolino pianificata da alcuni strateghi della comunicazione contemporanea. Al contrario, e per fortuna, si tratta di un progetto politico che comincia ad essere sempre più invocato e richiesto da pezzi crescenti della pubblica opinione italiana. Le mode, come tutti sanno, sono sempre esistite e sempre ci saranno. Ma quando tramontano deve ritornare la politica. Possibilmente con la P maiuscola.

GIORGIO MERLO