di Villy De Luca

 

A quattro anni di distanza dall’ultimo studio, le Sezioni riunite della Corte dei Conti hanno approvato il​ Referto sul sistema universitario 2021. Questo studio, pubblicato a dieci anni di distanza dall’introduzione della riforma “Gelmini”, punta a riferire sullo stato di salute del sistema universitario italiano. Le conclusioni del referto sono in chiaroscuro. Se da un lato fa ben sperare l’aumento dal 19% del 2007 al 27% del 2017 del numero di ragazzi che frequentano l’università in Italia, dall’altro preoccupa il numero di giovani con un’istruzione terziaria che decidono di lasciare il Belpaese, in crescita del 41,8% dal 2013 al 2020.

 

Il dato forse più sorprendente è quello legato alle prospettive di impiego una volta conseguita la laurea. Secondo la Corte dei Conti il “possesso della laurea non offre, come invece avviene negli altri paesi dell’area OCSE, possibilità d’impiego maggiori rispetto a quelle di chi ha un livello di istruzione inferiore”. La tanto agognata laurea, dunque, non aiuta i giovani ad inserirsi nel mondo del lavoro e questo innesca un circolo vizioso che spinge sempre più ragazzi a guardare al di fuori dei confini nazionali una volta completato il percorso di studi universitario.​

 

La Corte dei Conti non fa che confermare un sospetto che tutti avevamo, ma vedere scritto nero su bianco che le ore passate sui libri universitari non aumentano le chance di trovare un lavoro è sconfortante. È sconfortante per i giovani che si vedono negati la possibilità di esprimere il loro talento e realizzare le proprie ambizioni, è sconfortante per i genitori che faticano enormemente per dare ai figli l’opportunità di frequentare l’università ed infine è sconfortante per la collettività che fatica a vedere un ritorno sull’investimento nella formazione.​

 

Il​ Covid-19, purtroppo, non ha fatto che aumentare le difficoltà dei giovani che si affacciano sul mondo del lavoro. Il​ “blocco” dei licenziamenti​ introdotto con il decreto “Cura Italia”, ha sì evitato tutti tutti quei licenziamenti che avvengono perché, per esempio, un’impresa è in crisi e non ha i soldi per pagare il dipendente ma ha anche, di fatto, congelato le nuove assunzioni spingendo molte aziende a non rinnovare i contratti a tempo determinato oppure a non trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.

 

La stessa OCSE, nel suo Employment Outlook pubblicato nel luglio 2020, ha sottolineato come il blocco dei licenziamenti rappresenti un ostacolo ai percorsi di rinnovamento aziendale e, di fatto, penalizzi in maniera spropositata i tanti giovani che sono alla ricerca di un lavoro.

 

La situazione non è purtroppo più rosea per quella cerchia privilegiata di neolaureati che riesce a trovare un lavoro. Le condizioni occupazionali in Italia rimangono tra le peggiori dell’area OCSE specialmente quando guardiamo alle retribuzioni. Un laureato Italiano guadagna il 39% in più di qualcuno senza un titolo di studio, contro una media OCSE del 57%.

 

Non solo, dunque, è difficile trovare un lavoro ma, nei rari casi in cui si riesce nell’impresa, questo e mal retribuito e fortemente precario. Non stupisce che tanti ragazzi decidano di andarsene all’estero alla ricerca di migliori prospettive occupazionali e stipendi adeguati.

 

Con una disoccupazione giovanile che sfiora il 34% (tristemente tra le più alte d’Europa da tempo immemore), è necessario un intervento che vada a modificare profondamente il mercato del lavoro italiano. Punto cardine di una qualsiasi riforma deve necessariamente essere quello della flessibilità, sia in entrata che in uscita.

 

Un mercato del lavoro flessibile presuppone che nell’arco della propria carriera professionale un lavoratore cambi più volte la propria attività lavorativa e/o il datore di lavoro. Ma la flessibilità da sola non basta. Servono tutele e stipendi adeguati al costo della vita, in grado di permettere ad un giovane di crearsi un futuro e di avere un minimo di stabilità.

 

Per troppo tempo il concetto di flessibilità è stato sovrapposto a quello di precarietà; questo ha causato una demonizzazione e non si è voluto accettare che, per facilitare le assunzioni, bisogna necessariamente facilitare il licenziamento che, in un mercato veramente flessibile, deve essere solo una parentesi, triste ma temporanea, del percorso professionale e non la fine della propria carriera lavorativa. In una società in costante evoluzione è anacronistico pensare che il primo contratto di lavoro che firmiamo sia anche l’ultimo contratto di lavoro che firmeremo.

 

Dobbiamo imparare a convivere con l’idea che molti dei lavori che esistono oggi verranno scalzati dalla tecnologia e altri che non possiamo nemmeno immaginare domineranno la scena. Se non è possibile prevedere in che direzione si muoverà la domanda di lavoro, è possibile creare un mercato del lavoro capace di ricollocare i lavoratori nei settori più produttivi.