Gente d'Italia

I giudici implacabili: fu trattativa Stato-Mafia, anche Dell’Utri va condannato

di Franco Esposito

Condannate Marcello Dell'Utri. Alta e forte la voce del procuratore generale Sergio Barbiera. La pronuncia è risuonata nell'aula bunker di Pagliarelli. Il monito del giudice discende da una considerazione ampiamente provata. "Ci fu trattativa Stato-mafia". La requisitoria del procuratore generale è un preciso atto d'accusa. Ufficiali e politici del calibro di Dell'Utri "hanno intavolato una illecita interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa Nostra per interrompere la strategia stragista". 

Una verità incontestabile, questa, sostiene Sergio Barbiera. "Che è dentro lo Stato e che tuttavia non scrimina esecutori a mandanti istituzionali, come ha detto il presidente della Repubblica, o si sta contro la mafia o si è complici". La sentenza di primo grado va quindi confermata nella sua interezza. L'intervento del Procuratore generale arriva a conclusione delle tre udienze di requisitoria a sugello della richiesta della Corte di assise di appello di "confermare le pesanti condanne di primo grado nell'ambito della trattativa Stato-mafia". 

In sintesi, ventotto anni per il boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina; dodici anni per l'ex senatore Marcello Dell'Utri, fondatore con Silvio Berlusconi di Forza Italia, e per Nino Cinà, medico dei padrini Provenzano e Riina. Dodici anni per gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. Si rivolsero a Vito Ciancimino nel giugno del 1992, avviando di fatto la trattativa degli esiti che i procuratori generali Barbiera e Giuseppe Fici definiscono "devastanti". Menti raffinatissime che avevano sostenuto la "coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, consentendo a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto con il risultato di apportare ulteriore violenza". 

Arrestati i fratelli Gaviano, le "stesse menti raffinatissime garantiscono una latitanza protetta a Bernardo Provenzano, lo "zio". Forza Italia nasce in quei giorni, e succede cosa? Il procuratore Fici ritiene a questo punto decisivo il ruolo svolto da uno dei fondatori del partito, Marcello Dell'Utri, "in questa situazione di convivenza gattopardesca è stato il curatore della tessitura dei rapporti tra Cosa Nostrala 'ndrangheta con il potere politico". Interrogato sul tema, Silvio Berlusconi si è avvalso della facoltà di non rispondere. "Un suo diritto, ma di certo ci si aspettava un contributo diverso su questo argomento". 

Quella "convivenza gattopardesca" indulse il pentito Franco Di Carlo a svelare particolari sull'omicidio di Impastato e sui rapporti dell'ex generale Subranni con gli esattori mafiosi Ignazio e Nino Salvo e con Vito Ciancimino e Calogero Mannino. "E del rapporto intenso con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti". L'ex generale era interessato a "svolgere le indagini in una certa maniera sulla morte di Impastato, su sollecitazione dei cugini Salvo". 

Di quelle fasulle indagini, comunque pilotate, il procuratore generale è dell'avviso che Impastato fosse rimasto ucciso durante un atto terroristico da lui stesso compiuto. Il pg Barbiera rammenta la nota dell'ex colonnello Andrea Castellani "nel 1994 aveva richiesto di riaprire le indagini sulla morte di Impastato come un impegno d'onore che deve riscattare serietà e professionalità portando chiarezza". 

Il procuratore Fici ha sottolineato "serietà e professionalità erano andate a farsi benedire nei giorni in cui avrebbero dovuto essere espresse al massimo livello". La questione "mafia-appalti" viene ritenuta al contrario poco significativa e dai giudici di primo grado considerata scarsamente necessaria. Anche in appello i procuratori generali definiscono "inspiegabile" il comportamento dei giudici del processo Mannino. Una vicenda ritenuta determinante in funzione della doppia decisione assolutoria dell'ex ministro al centro di un'ordinanza del gip di Caltanissetta. Sarebbe stato in quel caso opportuno confutare la teoria della doppia rarefazione del rapporto del Ros, consegnato a Falcone il 20 febbraio 1992. Il giudice, ai tempi, era ancora in forza a Palermo, prossimo ormai al trasferimento a Roma. 

Il procuratore Fici sostiene che "quell'ordinanza non era negli atti, eppure il giudice di primo grado si è pronunciato anche sulla base di quell'atto". Fici e il collega Barbieri hanno inteso picchiare duro. La Corte d'Appello, paradossalmente, ha definito quella ordinanza a tal punto rilevante da interrompere la requisitoria del procuratore generale. Senza che la difesa di Mannino sia intervenuta. Non aveva infatti interesse a "enfatizzare la discussione, formulando un invito a produrre l'ordinanza". Richiesta supportata dal fatto presunto che "l'atto in questione inspiegabilmente non era agli atti". Una chiara contestazione (o bocciatura) del comportamento del giudice di primo grado. 

La Corte, alla fine, ha invitato le parti a produrre il documento. Quali le conseguenze? "Se il pg non aveva potuto adempiere alla richiesta, ma fortunatamente era a disposizione della difesa dell'ex ministro, l'onorevole Mannino, assolto in tre gradi di giudizio. Da tale ordinanza si ha la palmare contezza della doppia rarefazione". 

In conclusione, in questa vicenda "più che le testimonianze contano i documenti". Dalla relazione depositata da alcuni pm di Palermo alla commissione antimafia del 1998 emerge che nella prima informativa del Ros "erano stati omessi i nomi dei politici Rino Nicolai, Calogero Mannino e Salvo Lima". 

Appariranno sulla scena, in palese grande evidenza, a distanza di anno e mezzo. La trattativa Stato-mafia ci fu, c'è stata, e gli autori protagonisti a vario titolo meritano di essere condannati. I procuratori generali chiedono"la sentenza va confermata".

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