di Alessandro Giovannini

Le commissioni Finanze di Camera e Senato hanno appena licenziato un documento unitario sulla riforma fiscale che Aula parlamentare e Governo stanno per avviare. Dopo questo documento, infatti, la prima dovrà approvare una legge delega con i principi generali della riforma e il secondo, sulla base di questa legge, dovrà poi adottare i relativi decreti legislativi. La riforma ce la impone l’Unione europea ed è una delle condizioni del piano Next generation Eu per portare a casa 200 miliardi tra contributi e prestiti.

Il fisco, si sa, è una delle spine dorsali di qualsiasi comunità ed è mia convinzione che su questo terreno si giocherà gran parte della partita alle prossime elezioni politiche nazionali.

Quello licenziato dalle commissioni Finanze è solo un frammento di riforma, non è la “Grande Riforma” tributaria di cui il Paese avrebbe bisogno come il pane. Non lo è e non potrebbe esserlo: impossibile portare a sintesi le contrastanti impostazioni delle forze politiche di maggioranza, troppo numerose e troppo eterogenee. Sebbene Luigi Marattin, presidente della commissione Finanza della Camera e deputato di Itala Viva, abbia fatto un lavoro importante di cucitura e limatura, le divergenze permangono e sono profonde, a tal punto che la “Grande Riforma”, pure auspicata da Mario Draghi, dovrà aspettare nuove primavere.

Il documento, però, promette qualcosa di serio e di sostanzioso: riduzione della tassazione dei redditi compresi tra 28 e 55mila euro; abrogazione dell’Irap; revisione dell’imposta sulle società e sulle imprese con incentivi agli investimenti di capitali in attività produttive; mantenimento della flat tax per i redditi minori e forti aiuti all’imprenditoria giovanile e alle start up; razionalizzazione dei redditi di capitale, da tassare con aliquota proporzionale; esclusione di nuove imposte patrimoniali; incentivi alla collaborazione tra cittadino ed erario; revisione delle aliquote dell’Iva e revisione della tassazione ambientale.

 

Ora, al di là dei tecnicismi, da queste proposte è difficile dissentire: chi si può opporre alla riduzione dell’Irpef o all’abrogazione dell’Irap? Chi può dire di no alla ricostituzione di un rapporto fiduciario tra Stato e contribuente o alla revisione dei redditi di capitale, oggi immersi in una indistricabile giungla normativa? Oppure agli aiuti ai giovani o alle start up?

È il “minimo sindacale”, vien da dire, di qualsiasi manovra che voglia ambire, se non a passare alla storia, almeno a incidere minimamente sulla realtà economica e sociale del Paese. Eppure, si sa già che una riforma di queste dimensioni non sarà sufficiente, da un lato, per dare al fisco un volto realmente nuovo; da un altro, per risollevare l’economia e fronteggiare la drammatica crisi sociale alle porte. E si sa già pure un’altra cosa, paradossale: le modifiche ipotizzate, sebbene insufficienti, in realtà non potranno essere realizzate interamente perché troppo costose. Un paradosso, appunto, al quale si stenta perfino a credere.

Il costo stimato dal ministero dell’Economia è di 40 miliardi poiché il documento delle commissioni non ipotizza né nuove entrate, né riduzioni della spesa, ma solo tagli alle tasse. E il finanziamento di una riforma strutturale in deficit ulteriore, ossia con l’accensione di altro debito, sarebbe non solo una scelta schizofrenica ma forse anche di dubbia legittimità costituzionale.

Ora, per la verità, il costo indicato dal Ministero sembra eccessivo, ma anche fosse minore il nocciolo della questione non cambia. E questo nocciolo si chiama spesa pubblica. Se i partiti non avranno la serietà di affrontare questo macigno, qualsiasi ipotesi di riforma fiscale, pure fosse infiocchettata con nastri d’oro e annunciata con squilli di tromba, non potrà mai risolversi in una vera e propria rifondazione. Né per i cittadini, né per lo Stato.