di Fabio Luppino

“Voglio riportare in Italia i nostri giovani talenti e non far più partire quelli che stanno qui. Nel prossimo anno accademico i corsi Green and Digital saranno la grande novità. Lo dobbiamo fare, oltre al fatto che ce lo chiedono le imprese”.

La ministra dell’Università e Ricerca, Maria Cristina Messa ci tiene, eccome, a tagliare vecchi schemi legati al mondo universitario. Manca il voto definitivo del Senato su due riforme, le prime, significative, quella del pre ruolo nelle docenze e l’introduzione delle lauree abilitanti alle professioni di odontoiatra, farmacista, veterinario e psicologo, insieme alle norme che riconoscono valore abilitante alle lauree professionalizzanti tecniche per l’esercizio delle professioni di geometra, agrotecnico, perito agrario e perito industriale. Ma non finisce qui, c’è tutto il Pnrr relativo a università e ricerca da mettere in cammino.

Ministra, l’università nel prossimo anno accademico cosa avrà di nuovo?

Intanto ci sarà flessibilità, con presenza, didattica a distanza, presidi sanitari, vaccinazioni. Sarà ancora un anno molto condizionato dalla situazione contingente, ma le università hanno saputo ben rispondere in passato e lo faranno anche nell’anno che verrà. Analogamente, dovranno essere messe in campo tutte le azioni per recuperare, sul piano della didattica e su quelli psicologici e sociali, gli studenti. Tra le misure che abbiamo inserito nel Sostegni ci sono finanziamenti per aiutare le università a dotarsi delle infrastrutture necessarie per la Dad e competenze necessarie per il counseling psicologico e tutoraggio per il recupero.

Competenze che oggi non ci sono...

Alcune università ce le hanno già, altre no.

Cos’altro cambierà?

I corsi di laurea sono aumentati, così come la loro varietà. Iniziamo con sei nuovo corsi di Medicina e avremo quelli dedicati al Green and Digital. Corsi molto particolari, non disciplinari, ma molto interdisciplinari. Una novità importante ed è ciò che il mondo dell’impresa e del lavoro ci sollecita a fare e si fa davvero.

Non le pare, dal suo osservatorio, che gli studenti abbiano poca propensione a tornare in presenza?

La situazione è molto variegata. Ci sono quelli che vogliono assolutamente tornare. I fuori sede a partire dall’anno prossimo possono ricominciare in presenza. Non credo nella comodità di stare a casa. Se i giovani non hanno voglia di uscire, mi preoccupo.

Potrebbe però essere la spia di qualcos’altro, invece. Cioè, in alcune università i ragazzi non stanno proprio a loro agio...

Ogni comunità accademica deve mettere in campo azioni per rendere più attrattivi i propri Atenei. Non si possono costringere gli studenti, si devono far capire quali siano i vantaggi di stare in presenza. Ci vorrà tempo.

I ragazzi spesso si lamentano di difficoltà non necessarie all’interno dei loro Atenei: grandi difformità sugli stessi esami tra un appello e l’altro, facoltà che gli rendono la vita impossibile in una università e che invece diventano accoglienti e gli consentono di chiudere brillantemente il loro corso di studi in un altro Ateneo, e sto parlando di eccellenze statali. Come può il ministro agire su queste evidenti differenze?

Complessivamente c’è da lavorare su alcuni aspetti. Il tutoraggio sarebbe già qualcosa di importante, gli studenti degli ultimi anni a sostenere quelli dei primi anni, a loro volta guidati da qualche ricercatore. Altra cosa importante, la valutazione dei corsi fatta dagli stessi studenti. Sarebbe molto importante rendere pubbliche le loro valutazioni. Sarebbe lo stimolo più adeguato per i docenti a migliorarsi.

In alcuni casi, l’università, soprattutto nel rapporto docenti studenti non è molto diversa da quella di quarant’anni fa. I baroni ci sono ancora...

Vanno fatte valutazioni rigorose ex post, pesare i finanziamenti percepiti con la qualità del reclutamento dei docenti, molte anomalie finirebbero. Il baronaggio c’era, nei decenni passati, ma c’era anche il concetto di scuola. Andavi avanti se continuavi una scuola scientifica, con una didattica forte. Questo manca e la discrezionalità è un fattore positivo quando tu sei responsabile di quello che fai e paghi per quello che fai, se lo fai male, anche penalmente. Anche qui, il percorso è molto complesso. Intanto, cominciamo ad agire sulla valutazione del reclutamento che invece è possibile.

Il Recovery prevede grandi cose per università e ricerca. Per quest’anno il Paese ha complessivamente 25 miliardi. Quanti subito a disposizione per l’attività del suo ministero?

A settembre partiremo con i bandi per i  giovani. L’investimento da 600 milioni per finanziare progetti presentati da giovani ricercatori ha l’obiettivo di offrire nuove opportunità loro dedicate, al fine di trattenerli (o richiamarli) all’interno del sistema economico italiano. La misura prevede di sostenere le attività di giovani ricercatori – sul modello dei bandi European Research Council (ERC) e Marie Skłodowska-Curie Individual Fellowships (MSCA-IF) – e Seal of Excellence, al fine di consentire loro di maturare una prima esperienza di responsabilità di ricerca. Poi faremo delle manifestazioni di interesse sui centri nazionali e sugli ecosistemi dell’innovazione, due delle misure di trasferimento dalla ricerca al business, più complicate da costruire. Per l’università partiamo da una revisione normativa della legge sui finanziamenti delle residenze degli studenti, per renderla più fruibile da parte delle università.

Ma è un percorso che oggi potrà solo iniziare. Ci vorrà tempo per dare agli studenti adeguate sistemazioni...

In tre anni dobbiamo spendere un miliardo di euro. Con la normativa esistente abbiamo dei limiti strutturali pazzeschi.

Lei dice spesso che bisogna semplificare...

Senza, non andiamo da nessuna parte. Gli enti pubblici devono essere messi nelle condizioni di acquistare beni e servizi. Oggi ci mettiamo un anno.

I laureati in Italia, dato dolentissimo, ultimi in Europa. Dopo di noi solo la Romania... Perché?

Un trend storico, con aumenti poco significativi. Il 50% dei corsi è a numero programmato e molti atenei hanno dovuto restringere i frequentanti perché non hanno strutture e docenti sufficienti. Ci sono corsi molto attrattivi, anche se non dappertutto, che potrebbero accogliere più studenti ma gli Atenei non hanno strutture. Inoltre bisogna creare un’attrattiva maggiore per gli studenti in diversi modi: riducendo le tasse, ampliando la no tax area, gradualmente, e aumentando le borse di studio. Abbiamo nel Pnrr a disposizione 500 milioni per incrementarne entità e numero.

Guardando anche al merito, quindi?

Certo, ai meritevoli privi di mezzi.

Non ritiene, anche alla luce dell’emergenza sanitaria degli ultimi due anni, che sia stato un errore aver introdotto il numero chiuso con test d’ingresso a Medicina?

Sul fabbisogno non c’è emergenza, con i medici ci siamo. C’è, in effetti, un imbuto formativo tra la facoltà di Medicina e le scuole di specializzazione, ma si sta riducendo con l’incremento delle borse di studio: siamo passati dalle 5mila degli anni 2013-2014 alle 13.400 del 2019-2020. Ai miei tempi ci si iscriveva senza test, ma poi molti abbandonavano sugli esami scoglio. Consentire l’accesso a tutti significa dare soldi agli Atenei per grandi aule, e docenti tripli e poi magari gli studenti abbandonano.

Ma abbandonano anche ora?

A  Medicina no.

Nelle altre facoltà sì.

Il test d’ingresso funziona.

Molti lasciano tra il primo e il secondo anno, però. Come evitare questo fenomeno?

Con una migliore attrattiva delle università. Non sono una fan del test d’ingresso, però non si deve nemmeno essere rigidi. Nel sistema francese non c’è il test d’ingresso, ma c’è la selezione in itinere ed è pesante per gli investimenti fatti dalle famiglie. Per evitare abbandoni bisogna lavorare sull’orientamento nelle scuole e far capire ai ragazzi come conciliare la vocazione e le competenze acquisite, con il lavoro di domani.

Gli togliamo il sogno. Se uno volesse iscriversi ad Archeologia, cosa gli diciamo?

Lo farei parlare con un archeologo...

Eh, ma chi fa l’archeologo, per quello che è il contesto italiano, lo disincentiva...

Eh, così ha maggiore consapevolezza.

Pensare al lavoro a 19 anni...

Guardi, molti degli abbandoni non sono vocazionali, ma solo perché i ragazzi non riescono a stare al passo con corsi ed esami. Hanno sottovalutato l’impegno.

Lei sta portando a casa la riforma dei pre ruoli nella docenza e le lauree abilitanti. E ha detto, con ottimismo, che in futuro avremo dei professori associati a 40 anni. Oggi il 70% di ordinari e associati ha più di 50 anni e l’età media dei soli ordinari è altina, 59 anni...

Anche sotto i quaranta...

Quando?

Gli effetti della riforma, quando diventerà definitivamente legge, li vedremo tra dieci anni. Solo la tenure track (la possibilità per un ricercatore universitario inizialmente con contratto “a termine” di essere confermato a tempo indeterminato in grado di dimostrare un’adeguata attività di ricerca, qualità nella propria docenza, mole di pubblicazioni ed efficienza amministrativa, ndr) è di sette anni. Se si inizia l’attività di ricercatore a 27 anni...

Come può rendere più attrattiva la carriera universitaria, a partire dal dottorato?

Dobbiamo assolutamente aumentare gli introiti delle borse. Sono persone che hanno già famiglia, dobbiamo adeguarci al livello francese. Guardare alle scuole di specializzazione.

Qual è la sua competenza sulla promozione degli Its, di cui tanto si è parlato nei giorni della nascita del governo Draghi?

Sono le azioni ponte tra il diploma e la laurea. Dobbiamo aumentare il numero degli studenti universitari e di quelli che frequentano gli Its. Molte università stanno lavorando con gli stessi Its e sono pronte. Inoltre, sono partiti accordi con le confindustrie locali.

Serve trasparenza per chi decide di lavorare in università...

Le università devono scegliere la loro strada. Devono reclutare le persone migliori e sviluppare le proprie linee. I commissari stranieri sono allibiti, quando vengono da noi, dai ricorsi fondati sulle virgole. Non è un sistema normale.

Sente che per il governo l’università sia un fattore centrale?

Più che l’università, la ricerca.

Il tre più due come lo valuta?

Positivo per i percorsi che hanno saputo interpretare al meglio il tre: lauree sanitarie, in informatica e il turismo. Andrebbe rivisto per quelle lauree per cui il più due è inevitabile.

I ragazzi non credono nella laurea triennale...

La cosa buona, invece, è che fanno il triennio vicino casa e il biennio nel posto migliore, anche lontano, all’estero. Dopo la triennale sono pronti per scegliere. Davvero.