Gente d'Italia

I genovesi che inventarono il Boca

DI MARCO FERRARI

Quando al generale Julio Argentino Roca, presidente della Repubblica argentina che aveva sterminato gli indios della Patagonia, dissero che i xeneizes della Boca avevano avviato un’azione secessionista a pochi passi dalla sua residenza, pensò che fosse una pittoresca ribellione dovuta all’alto consumo di vino e alcolici. Invece in poche ore, grattandosi il folto pizzetto che puzzava di sangue mapuche, in segno di perplessità, si rese conto che quelli della Boca facevano sul serio. «Vogliono fare come a San Marino» proclamò un segretario del presidente Roca, di chiara origine romagnola. I promotori si chiamavano Vernengo, Cafferata, Blanco, Ungaro, Invierno, Castañera e Perazzo. Fu lo stesso Roca a recarsi in carrozza nella Boccadasse bairese per contrattare la resa o meglio l’accordo. Fu tale la forza di persuasione di Roca che il giorno seguente i boquenses genovesi battezzarono col nome di Presidente una delle calli principali della zona.

Juan Antonio Farenga hijo (figlio) mi mostra una foto del 25 maggio 1940. All’inaugurazione della Bombonera, al centro del campo, gli eroi della fondazione del club tengono dispie- gata la bandiera del Boca: José Farenga, Juan Antonio Farenga, Arturo Penney, Ludovico Dollens, Juan Priano, Marcelino Ver- gara e Pedro Moltedo. Camminiamo lasciandoci alle spalle gli spalti dello stadio. Juan Antonio si tiene ad un bastone, gambe arcuate, occhiali e baffi, e si ferma spesso. Per lui ogni angolo di questo quartiere contiene una storia, una vicenda, un aneddoto, un ritrovo: la salumeria dei Delfino, il vino dei Cacace, la pizzeria di Juan Priano, la focaccia e la farinata di Tuñin de la Boca e quella di Pedrin, che la vendeva davanti allo stadio su un banchetto.

Passeggiare oggi davanti alla Bombonera incute un certo timore. «Nel 1932, quando si decise di acquistare il terreno per costruire lo stadio – racconta Juan Antonio Farenga hijo –, l'idea di mantenere i famosi isolati di via Del Crucero, oggi Del Valle Iberlucea, era già in circolazione».

La massiccia costruzione inaugurata nel 1940 con le sue forme rigonfie e le tribune inclinate verso il campo sembrano contenere tutta la memoria di una grande storia. L’emigrazione si fonde più dentro lo stadio che non nelle calli disadorne del barrio dove, ancora adesso, l’acqua la fa da padrone e diventa l’elemento coagulante.

Mi trovo sotto l’ingresso principale della Bombonera lato nord. Questa “scatola di cioccolatini” dai colori giallo e blu dipinti sugli spalti ha una conformazione particolare, a forma di D. Ha tre lati alti e verticali, con curve di continuità, e un lato, quello della tribuna, stretto e più basso, quasi affilato. E anche le case le stanno addosso per tre lati mentre il quarto, all’op- posto della tribuna, ha un piazzale antistante e le abitazioni distanti. Questa particolare sagoma determina una vocalità unica dello spazio: non a caso la tifoseria della Bombonera è chiamata La Doce – il dodicesimo uomo in campo – poiché i cori si trasmettono sul campo come un'onda vocale. Benché le abbiano affibbiato diversi nomi (prima Camilo Cichero, poi Alberto J. Armando), tutti la chiamano Bombonera perché il suo progettista, l’architetto triestino Viktor Sulcic, al momento della presentazione del progetto (basato sull’Artemio Fran- chi di Firenze) aveva ricevuto in regalo una scatola di ciocco- latini dai colleghi, in particolare da José Delpini, che così lo ribattezzò.

Ho un amico che è cresciuto di fronte alla porta d’ingresso della Bombonera, una posizione in cui è difficile, in certi gior- ni, ottenere pace e tranquillità. Si chiama Juan Bautista Stagnaro ed è un regista di cinema. Ha realizzato film come Casas de fuegoLa furiaEl amateurUn día en el paraísoEl séptimo arcángel e la sceneggiatura del film Camila, finalista all’Oscar 1984 come miglior film straniero.

Suo padre è emigrato dalla Liguria, faceva il pescatore, è andato prima a Mar del Plata e dopo alla Boca. Stagnaro si sofferma su un aspetto che sembra insignificante ma non lo è: «La Bombonera ha una acustica perfetta. Si dice che le voci di cinquantamila persone coprano letteralmente il cemento. Per questo non è meno grande il peso del suo silenzio, nei giorni feriali».

Lui lo sa bene, ha vissuto con quei silenzi e quei clamori. Li ha nella testa, rimbombano al solo pronunciarli. La prima volta che è entrato oltre quella muraglia possente che dominava   la finestra di casa sua è stato nel 1963: «Il campo era vuoto, le tribune vuote, guardavo il fossato mezzo pieno di acqua piovana che all’epoca separava le tribune dallo spazio di gioco. Poi, all’improvviso, entrarono dei calciatori, gli eroi delle fatiche, lontano dalle immagini colorate delle copertine delle riviste. In quel silenzio si poteva sentire l’impatto del piede sulla pal- la, con un lieve ritardo dovuto alla distanza, un leggero disallineamento, un fallimento di sincronizzazione. I calciatori ridevano, si facevano degli scherzi, sembravano ragazzi, ma che ragazzi, uomini infantili, si spingevano l’un l’altro, si la- sciavano cadere sull’erba, come bambini, lontano dalle gesta della domenica pomeriggio. Sembravano degli dèi sprovveduti con i loro pantaloncini sbiaditi da ginnastica. C’era un solo spettatore nella cancha vuota, un ragazzo, io. Una inversione della logica dello sguardo, dall’interno verso l’esterno. Che pensavano gli dèi del pallone di quell’adolescente che di tanto in tanto alzava lo sguardo dal libro e li guardava? L’adolescen- te leggeva, sognava e guardava. Era il titolare esclusivo del suo sguardo. Ancora ha tutta la vita davanti. Però i suoi sogni erano poveri, accessibili. Quale di quegli dèi provocherà il delirio nella prossima finale di Copa de Campeones de América che si terrà proprio là, in quel luogo, in quello scenario, in quel campo di calcio?».

Stagnaro mi porta nella gradinata dove era seduto quel pomeriggio del ’63. E ancora si domanda che cosa potessero pensare di lui che invece di gridare leggeva, quell’unico testimone di uno spazio proprio, di uno spazio che nella settimana non vive, in attesa di riprendere fiato alla domenica.

L’esperienza di quell’attimo, mi suggerisce Stagnaro, ha se- gnato il resto della sua vita dominata dal segno dell’opposto: la realtà e il simbolo, il pieno e il vuoto, il silenzio e le grida, le visioni verticali e quelle orizzontali, la luce e l’ombra, l’azione e lo sguardo, la notte e il giorno. Siamo già in pieno set cinematografico: che cosa succede se si mettono assieme queste azioni alternative? Che cosa succede se i suoni si smuovono?

E se il suono non è regolato, non è sincronizzato? Da lì discen- de la metafora, anche quella del pallone come specchio della vita. Soprattutto da queste parti del Riachuelo dove l’esistenza si è sdoppiata: perse le radici se ne cercano altre, di nuove. E quelle, come si è detto, stanno appese proprio a questi spalti di doppio colore, come doppia è la percezione degli emigranti e dei loro discendenti.

Poi il giorno della finale arrivò grigio e piovoso. Le tribune esplodevano. Adesso lo sguardo del “chico GB” è uno, uno solo tra mille e mille. «Essere uno di una moltitudine, stretto nella folla – racconta Stagnaro –, dà l’illusione di sentirsi parte di un organismo, integrato agli altri, una parte di un unico. Così è al- la Bombonera, corpi incastrati insieme in una unica volontà di movimento, che sale e scende le scale (in senso letterale!) senza che i piedi tocchino il pavimento. Si ha davvero il senso della verticalità che non dipende dalla volontà dei singoli ma dalla capacità di restare in sincronia con la massa compatta che va e viene in accordo con la musica di quel gioco rischioso».

Con qualche patema d’animo Juan Bautista Stagnaro con- fessa che quel match appartiene alla storia, Boca Juniors-Santos, finale della Copa de Campeones de América (ora Coppa Libertadores). Dopo il 3-2 dell’andata i brasiliani conquistarono anche la Bombonera. «All’inizio del secondo tempo – rammenta adesso Stagnaro con una certa concitazione sportiva, a quasi sessant’anni dai fatti narrati –, il Boca segnò un gol sucio, frut- to di spintoni e rimbalzi, realizzato dal grande Sanfilippo. Ciò provocò una certa incazzatura degli uomini in maglia bianca che, messa la palla a centrocampo, veloci, con rapidi e sorprendenti passaggi, arrivarono in area e segnarono con Coutinho. Su di noi calò il silenzio. La nostra effimera felicità era durata pochi minuti. Dovevamo ricominciare da capo. Il Boca prese il controllo del centrocampo, però i bianchi rubavano spesso la palla e rilanciavano. Così il Santos riuscì a segnare di nuovo all’82° con incredibile precisione. Non vi era giustizia al mondo? In uno spazio di tempo così limitato decadevano i sogni?

Dorval, Lima, Coutinho, Pelé, Pepe. Sì, io vidi giocare il Santos di Pelé nella Copa de Campeones in casa mia, da casa mia, che era a pochi metri dal mito. Quella volta ho imparato il peso schiacciante del dolore senza metafore. Ma ho anche imparato la bellezza irraggiungibile della parola straniero».

Forse non è un caso che il Boca e il River, i due club più importanti del Sudamerica, nacquero in questo quartiere ligure e sino al 1922 si contesero il dominio del Sud-est porteño. Con un po’ di boriosità, il River portò via dal Caminito la sua storia (era nato il 25 maggio 1901 davanti alla vetreria Gentile, in Almirante Brown, secondo alcune fonti), la fama di ricchezza – li chiamano i millonarios – e i suoi colori storici, il bianco e il rosso. Il suo primo campo sconnesso e irregolare era infatti un lotto della fabbrica di carbone Wilson e la sede delle riunioni domenicali dei primi pionieri del pallone era l’abitazione di mister Jacobs, vicedirettore della società. Il nome lo inventò un certo Pedro Martínez durante la costruzione del Duque 3 della Boca vedendo un ragazzo giocare al pallone, in un momento di libertà, su un gigantesco pontone galleggiante su cui figurava quella scritta, «The River Plate». Al momento della fondazione altri giocatori propendevano per soluzioni diverse: Bernardino Messina propose Juventud Boquense, Carlos Antelo desiderava conservare il nome La Rosales, ma alla fine passò la proposta di Martínez. Sulla data di nascita è invece ancora aperta una discussione tra esperti: secondo il fondatore Enrique Zanni, che scrisse la prima storia del club, la data sarebbe quella del 1904; secondo Julio Degrossi, presidente nel 1938, sino al 1903 la parola River non compare, essendo ancora valide le denominazioni di Santa Rosa e La Rosales. Leopoldo Bard, che giocò nel Santa Rosa, fu nominato primo presidente dei futuri millonarios. Praticante all’Hospital Muñiz, notò un cartello di pubblicità caduto durante una tormenta, lo raccolse, lo portò dal carpentiere e vi fece disegnare sopra il nome e la bandiera del club. Quello fu il primo messaggio pubblicitario del River.

Sull’origine dei colori sociali le versioni sono differenti: la più semplice e diretta ci porta allo stemma della città di Genova e alla Croce di San Giorgio, bandiera dell’Inghilterra; la se- conda fa riferimento ad un carro allegorico del quartiere Belgrano di Buenos Aires durante il carnevale del 1901 con una banda rossa; la terza ci segnala che Enrique Salvarezza volle una maglia simile a quella dei predecessori, La Rosales. Ma la versione più originale appartiene ad Amílcar Romero: in un saggio sostiene che il disegno della maglia e i colori sono identici a quelli del drappo del Gran Maestro della massoneria di rito scozzese Watson Hutton, ammesso nella Loggia Excelsior numero 617 il 6 luglio 1893, punta di diamante di una pattuglia di massoni di diverse nazionalità – spagnoli, ebrei e persino un tedesco nato in India – capitata nella Darsena Sud all'inizio del Novecento.

A differenza dei piccoli mocciosi del Boca Juniors, avvezzi alla strada e alle bettole, quei signori si riunivano nella casa di Jacobs, alle cinque del pomeriggio, per un tè con biscotti. E se quelli del Boca vennero chiamati xeneizes, quelli del River si videro appioppare il diminutivo di darseneros, dal luogo dove si trovava l’oramai mitica Carboneria Wilson. In quel campo nella zona est della Darsena Sud scese in campo la prima formazione biancorossa: Moltedo, Ratto, Cevallos, Peralta, Carre- ga, Bard, Kitzler, Martínez, Flores, Zanni, Messina. Di lì a poco il River cambiò sede: per decisione del Ministero dell’Agricol- tura si trasferì a Sarandí, un campetto vicino a Avellaneda, anche se continuò a giocare alla Darsena Sud dove nel 1909 sfidò in una doppia finale vincente il Racing. Dal 1909 i biancoros- si fecero parte della massima divisione, giungendo secondi e mandando in nazionale il loro primo rappresentante, Hernán Rodríguez. Il rettangolo della Darsena Sud fu devastato nel 1913 da un violento nubifragio e il River giocò l’intero torneo del 1914 ospite del Ferro Carril Oeste finché non poté tornare alla Boca, in un nuovo campo, tra le vie Aristóbulo del Valle e Caboto. Il definitivo trasloco avvenne solo nel 1922 quando la   società trovò casa nel quartiere di Palermo. L’anno successivo, il 20 maggio 1923, venne inaugurato lo stadio con tribune in legno all’incrocio tra Alvear e Tagle con uomini in paglietta, doppio petto e baffi arguti e ragazze con collane di perle bianche, lunghi guanti, boa e cappellino tondo a cloche.

Il cordone ombelicale con la Boca era rotto. Lì, in quel rettangolo verde, il River vinse il suo primo scudetto nel 1932 lanciando nell’olimpo del pallone indimenticabili figure come Adolfo Pedernera e Carlos Peucelle, il cui acquisto per 10 mila pesos nel 1931 valse per sempre l’appellativo di millonarios, anche in epoche diverse di galoppante inflazione, quando con quella cifra si comprava una copia di un quotidiano e non si cambiava neppure un dollaro.

Quando il genovese Antonio Vespucio Liberti, di famiglia mazziniana, promotrice dei Bomberos de la Boca (corpo di pompieri volontari), al quale è ora intitolato lo stadio Monumental, si trovò sullo scranno più alto del club, comprò un terreno di 84 mila metri quadrati, vicino al Río de la Plata, in una zona paludosa, al limite dei quartieri di Nuñez e Belgrano, pagandolo 570 mila pesos. Il 25 maggio 1935 fu posta la prima pietra dello stadio; tre anni dopo, il 25 maggio 1938, l'impianto fu inaugurato ufficialmente con una vittoria sul Peñarol di Montevideo. La capienza originaria dello stadio era di 68 mila posti. Nell’occasione si festeggiò anche il 37° anniversario del- la fondazione del River.

Nonostante il River non sia più una squadra del barrio genovese, la sfida con il Boca è un appuntamento epico per il calcio mondiale, dal 1908 quando i xeneizes vinsero il primo derby 2-1 sino ad oggi. E quando quello scontro va in scena, al Monumental o alla Bombonera, è come se due fratelli si incontrassero dopo tanti anni di violenta separazione, mischiando odio e amore.

FINE SECONDA PUNTATA

(CONTINUA)

 

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