Quando all'inizio del Novecento il Boca Juniors e il River Plate nacquero, Genova e Buenos Aires erano quasi un'unica città, distanti un oceano di mare. I due scali si erano attrezzati per affrontare il grande movimento di merci e uomini, avviando lavori di ampliamento quasi contemporaneamente. A metà dell'Ottocento, nella città ligure venne rivista interamente la zona di Ponte dei Mille con la costruzione di un nuovo pontile e la demolizione della chiesa di San Tomaso e del promontorio di Caput Arenae. Più o meno negli stessi anni, esattamente nel 1854, a fronte dell'aumento degli ingressi di emigranti italiani, il governo dello Stato di Buenos Aires istituì un'apposita commissione che favorì l'apertura, tre anni dopo, di un centro di accoglienza.

Il primo armatore a lanciarsi in maniera regolare sulle rotte sudamericane con navi miste, cioè a vela con macchina ausiliare a elica, fu il recchese Giovanbattista Lavarello che, rilevato uno "scagno" di Michele Schiaffino in piazza Banchi, fece costruire una nave chiamata appunto "Buenos Aires" che salpò la prima volta il 4 gennaio 1864. Morto il Lavarello nel 1881, la società fu rilevata dai figli Enrico e Pietro affiancati da altri soci come Pallavicini, Bruzzo e Adorno.

Un giorno del 1889 alla Boca videro spuntare dalle acque una piccola barca. Nicola Chichizola e sua moglie Aurelia Ferraro si erano imbarcati a Quinto su una nave di loro proprietà, il brigantino "Nanta", con i cinque figli, Silvio, Amelia, Edilio, Luisa e Alfredo. Abitavano in via Minerva 8 a Quinto al Ma- re. Nicola era nato il 12 dicembre 1834 a Quinto. Era figlio di Agostino Chichizola, capitano di lungo corso e armatore, e di Domenica Musante. Trasportava vino, sale e carbone. Aurelia Ferraro era figlia di Agostino, anche lui capitano di lungo cor- so e armatore, e Catalina Rissotto. I figli continuarono a fare la spola tra la Boca e Genova. A Nicola fu donato anche un oro- logio da parte della regina Vittoria per aver salvato un intero equipaggio e i passeggeri di una nave britannica.

Nel 1890 venne inaugurata dal Genio Civile genovese la Stazione marittima dotata di sala passeggeri, sala ristoro, sala medica e avamposto di polizia. Ampliata nel 1914, venne completata nel 1930. Il nuovo edificio, composto da tre corpi di fabbrica con passerelle di collegamento tra le varie sale, divise in prima e seconda classe nel piano primo e di terza classe nel piano calata, è quello che vediamo oggi.

Il gemello argentino della Stazione marittima si chiama Hotel de los Inmigrantes, un edificio lungo e squadrato, come una caserma di diecimila metri quadrati, circondato da un parco verde, appena discosto dalle rive del fiume, in avenida Antártida Argentina. È il luogo che simboleggia l'approdo di milioni di italiani sul Río de la Plata. Oggi, vedendolo, pare dominato dal silenzio della storia. Eppure, siamo a due passi dal chiassoso centro di Buenos Aires e molto vicini al moderno Puerto Madero che ha subìto le stesse trasformazioni del Porto Antico di Genova con ristoranti, locali, multisale cinematogra- fiche e centri di divertimento.

Le fondamenta dell'Hotel de los Inmigrantes furono poste dal Ministero delle Opere Pubbliche nel 1906 con la costruzione dell'imbarcadero, dell'Oficina de trabajo e quindi dell'o- spedale, della direzione e infine del grande stabile. A differenza di altre mete di destinazione, in Argentina l'emigrante veniva sottoposto ai controlli burocratici e sanitari direttamente a bordo del piroscafo. Infatti, subito dopo l'arrivo, una com- missione medica visitava i passeggeri per verificare l'assenza di malattie contagiose o invalidanti, magari contratte durante il tragitto. Superati i controlli sanitari, l'emigrante poteva trovare una sistemazione temporanea presso l'Hotel. Il periodo massimo, per regolamento, era di cinque giorni, ma poteva aumentare in caso di infermità temporanea o di mancanza di occasioni lavorative.

Lì è passata gran parte della storia argentina, contadini liguri e piemontesi, siciliani e calabresi, che sono diventati proprietari agricoli, bambini che crescendo hanno fatto una nazione, donne che hanno portato l'emancipazione, profughi politici che hanno costruito i partiti e i sindacati, braccia umane e menti disposte a crearsi una vita nuova senza dimenticare le proprie radici. Lungo cento metri, largo 26, quattro piani in cemento armato, grandi spazi interni tutti accessibili da un corridoio centrale, fornito di cucine a vapore e mense, camerate, bagni, docce, l'Hotel de los Inmigrantes poteva ospitare quattromila persone.

A differenza di altri luoghi simili di accesso al Nuovo Mondo (pensate a Ellis Island di New York), qui l'emigrante aveva una vita attiva fin dallo sbarco. Gli uomini potevano uscire a cercarsi un contratto oppure passavano il tempo all'Oficina de trabajo per mettersi alla prova di fronte a eventuali offerte di lavoro e partecipare a corsi professionali, le donne pulivano, i bambini imparavano la nuova lingua e giocavano nei giardini. Bisognava sopportare lunghe file per accedere al pranzo, distribuito dalle 11 alle 12, e alla cena, dalle ore 18. Alle 15 i bambini avevano diritto anche alla merenda. Dopo cena, invece, si tenevano conferenze sulla storia e l'attualità dell'Argentina. Quando un consistente numero di persone aveva ottenuto il lavoro veniva accompagnata in gruppo alla stazione ferroviaria. Una folla faceva ala a quel corteo di nuovi cittadini sperando di incocciare qualche viso conosciuto.

Oggi in quell'edificio è conservata una banca dati di circa quattro milioni di registrazioni d'ingresso con la catalogazione degli sbarchi dei migranti tra il 1882 e il 1927. Un ufficio a cui si rivolgono in tanti, specialmente coloro che, desiderosi di ricevere il passaporto della nazione di origine, cercano i dati relativi al primo avo che ha toccato terra a Buenos Aires, in un paese dove nessun cittadino ha quattro nonni nati in Argentina, in una metropoli in cui la metà dei cognomi sono italiani, con una zona sud, dalla Boca in giù, ad Avellaneda, Quilmes, Bernal dove imperano piemontesi, liguri e veneti.

Lì sorsero agglomerati dal nulla, dalle paludi del fiume, case in legno, baracche di lamiera dipinte con gli avanzi dei colori delle navi, conventillos di prostitute, banchine di pescatori con in testa il classico cappello nero di Liguria. Gli italiani si installarono in pozzanghere di uccelli acquatici, fossi di girini, immensi campi desertici con nascondigli di serpenti velenosi, in un cielo smosso da nuvole fugaci del delta e solcato da volatili dotati di grandi ali e di cento colori. Zone di sabbie mobili e acque ingannevoli e insidiose per animali sconosciuti e insetti feroci dove riuscirono ad impiantare un giardino, un orto, a coltivare frutta e verdura, a far crescere il basilico e il timo.

Poi tutto si fece città, barrio dopo barrio, casa dopo casa, palazzi e grattacieli, ferrovie storte e strade diritte che non finivano mai. Ogni tanto spuntava qualche fiore selvatico, frutto di una natura antica, che faticava ad avventurarsi tra il cemento e l'asfalto. Poi non più.

E ogni barrio volle la sua squadra di balompié, il suo campo rettangolare, i propri colori, il proprio stadio. Riversandosi nelle Americhe, gli italiani si portarono dietro i loro difetti, i loro dialetti, le loro idee politiche, le loro cucine regionali e le loro propensioni sportive. All'inizio le società sportive si chiamavano semplicemente Gimnasia y Esgrima, dedicate cioè allo sport rampante della fine dell'Ottocento, la ginnastica (ricordarsi Amore e ginnastica di De Amicis), e a quello tradizionalmente più italiano, la scherma (ricordarsi della storia dei fratelli Nedo e Aldo Nadi di Livorno, vincitori di due Olimpiadi). Alle Olimpiadi di Anversa del 1920 Nedo Nadi, portabandiera della spedizione azzurra e capitano della squadra italiana di scherma, vinse la medaglia d'oro nelle tre armi (a squadre nella spada e individuale e a squadre sia nel fioretto che nella sciabola).

Mancò solo l'oro individuale nella spada, a causa di problemi intestinali che lo costrinsero ad abbandonare il torneo. Portato in trionfo dagli stessi avversari, fu uno dei protagonisti di quell'Olimpiade, assieme al fratello Aldo e al "finlandese volante" Paavo Nurmi. Trasferitosi in Argentina, allenando e gareggiando per il Jockey Club di Buenos Aires, a causa di un virus sconosciuto rientrò in Italia alla fine del 1923, continuò come schermitore vincendo nel 1930 il Campionato del Mondo per "professionisti", cioè i Maestri di Scherma. Commissario tecnico della squadra azzurra per le Olimpiadi del 1932 a Los Angeles, nel 1936 divenne presidente della Federazione Italiana Scherma, incarico che mantenne fino alla morte. Sotto la sua presidenza, l'Italia conquistò quattro ori, tre argenti e due bronzi ai Giochi del 1936. A partire dal nuovo secolo, il Novecento, quelle società si occuparono prevalentemente di fútbol, che diventò lo strumento dei sogni, essendo la massima espressione del Vecchio Continente.

Tra Ottocento e Novecento gli architetti italiani costruirono la città dalla geometria rigorosa, quasi uno zodiaco, secondo Jorge Luis Borges. La Casa Rosada è opera di Francesco Tamburini, come la ristrutturazione del Teatro Colón nel 1908, progettato dall'ingegnere Carlos E. Pellegrini nel 1857, il Teatro La Victoria fu ideato da Giovanni Battista Arnaldi, il Palazzo del Congresso Nazionale da Vittorio Meano, le due più belle scuole di Buenos Aires d'inizio secolo, la Escuela Sarmiento e la Escuela Presidente Roca, e la Biblioteca Nacional, sono dovute al marchese Carlo Morra di Napoli, la Bolsa de Comercio, invece, è opera dell'ingegnere Giuseppe Maraini. Ma l'edificio che maggiormente rappresenta l'inventività italiana è Palazzo Barolo, nella centralissima avenida de Mayo, numero civico 1370, un enorme labirinto dedicato a Dante, gemello di Palazzo Salvo a Montevideo.

Qual era lo scopo dell'edificio più alto della metropoli rioplatense? Il progetto era quello di portare le spoglie del Sommo Poeta in quella che era la nuova grande capitale degli italiani. A ideare il trasferimento furo- no un architetto, Mario Palanti, e un industriale, Luigi Barolo, entrambi massoni. Nato a Biella nel 1869, Barolo sbarcò dall'altra parte dell'Atlantico nel 1890, avviò un importante cotonificio a Valentín Alsina e divenne importatore di macchine tessili. Ad appassionarlo all'idea fu l'architetto Mario Palanti, nato a Milano nel 1885, accanito lettore della Divina Commedia e arrivato in Argentina nel 1909 per costruire, assieme a Francesco Gianotti, il padiglione italiano all'Esposizione del Centenario dell'indipendenza dello Stato latino-americano, celebrato l'anno successivo.

Dopo la guerra 1915-18, Palanti e Barolo temevano che una nuova catastrofe bellica si abbattesse sull'Europa e in particolare sull'Italia distruggendo l'ingente patrimonio storico-artistico della penisola, tra cui, appunto, il tempietto di Ravenna dove si conservano le ossa di Dante. Le loro previsioni, come si sa, si rivelarono esatte, anche se il secondo conflitto mondiale scoppiò più avanti. Per prima cosa scelsero un terreno centrale, in avenida de Mayo, l'arteria principale della capitale federale che porta dal Palazzo del Congresso alla Casa Rosada.

Gli ostacoli che si trovarono di fronte furono le regole urbanistiche che imponevano edifici non più alti di 20 metri per non oscurare la cupola del Congresso Nazionale. Barolo, grazie alle sue entrature, riuscì a strappare qualcosa di più consistente, una costruzione cinque volte superiore al massimo consentito. I lavori ebbero inizio nel 1919 e si conclusero nel 1923, anche se i due avevano progettato di trasferire le ceneri nel 1921 a seicento anni dalla morte di Dante. Tutti i materiali erano stati portati dall'Italia, come i marmi di Carrara, salvo l'ascensore che arrivò dalla Svizzera. Fuori da alcuni appartamenti è rimasta la scritta «Non buttate oggetti dalla finestra e non sputate», perché all'epoca il tabacco da masticare era molto diffuso e tutti sputacchiavano fuori.

Al momento dell'inaugurazione, il 7 luglio 1923, Barolo non c'era più, era morto l'anno prima, senza vedere conclusa la monumentale opera che avrebbe per sempre portato il suo nome. Fino al 1935, anno in cui è stato inaugurato il Kavanagh, il Barolo è stato l'edificio più alto di Buenos Aires. Il palazzo celebra la prosperità dell'emigrante italiano, la storia che si trascina dietro e la cultura della terra natia in un'epoca in cui a Buenos Aires la gente proveniente dall'Italia cominciava a superare per numero i nativi. Mario Palanti, allievo di Brera e del Politecnico, pittore e scultore, costruì il suo capolavoro in uno stile architettonico che mischia elementi del gotico veneziano e architettura religiosa dell'India. A giudizio dello storico dell'architettura argentina Carlos Hilger, Palazzo Barolo è il miglior esempio dell'architettura esoterica degli inizi del XX secolo.

di Marco Ferrari

FINE TERZA PUNTATA

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