Gli incendi in Sardegna o quelli sulla costa orientale degli Stati Uniti spaventano perché mostrano il danno in maniera diretta, inequivocabile. Non si può far finta di niente. Ma c’è un’altra forma di cancellazione della natura più diffusa, più nascosta, più radicale. È la bulimia del nostro sistema produttivo, un’idrovora che prosciuga gli ecosistemi. E ci impone un cambio di passo così rapido da rendere improvvisamente prive di significato parole che ci hanno accompagnato per millenni. Ad esempio per descrivere i beni naturali che alimentano la nostra economia usiamo la parola risorse. Viene dal latino e significa risorgere. Per secoli è stata appropriata. Ha descritto un’attività di prelievo compatibile con il ciclo naturale: alberi, animali, frutti venivano utilizzati e la generazione successiva prendeva il loro posto. Certo, di tanto in tanto c’è stato qualche eccesso. Si sono creati squilibri, crisi ecologiche anche gravi, ma sempre a carattere locale, o limitate a un certo numero di specie.

Oggi le risorse naturali non risorgono più. Vengono trangugiate prima di aver avuto il tempo di riprodursi. Non utilizziamo più i dividendi del capitale naturale: lo stiamo intaccando. Divoriamo il pianeta con voracità crescente. Per misurare il grado di questo disturbo alimentare collettivo il Global Footprint Network ha messo a punto un sistema di misurazione che permette di stabilire quale è il momento in cui il bilancio ecologico del pianeta va in rosso perché abbiamo consumato le risorse disponibili per quell’anno e andiamo avanti facendo un debito che pagheranno i figli e i nipoti. Questo momento è oggi. Nel 2021 l’Earth Overshoot Day arriva il 29 luglio. A partire da oggi, e fino al 31 dicembre, le esigenze dell’umanità - in termini di emissioni di carbonio, terreni coltivati, sfruttamento degli stock ittici e uso delle foreste per il legname - sono incompatibili con la capacità del pianeta di rigenerare queste risorse e di assorbire il carbonio emesso. Gli scienziati dicono che la “biocapacità globale” non ci basta. Che avremmo bisogno di 1,7 pianeti Terra.

Con l’eccezione dell’anno scorso (l’alt provocato dalla pandemia ha spostato a fine agosto l’Earth Overshoot Day), finora è andata sempre peggio. Alla fine degli anni ’60 eravamo ancora in equilibrio: il nostro conto corrente con la natura era in pareggio. Negli anni ’80 l’impronta ecologica dell’umanità ha superato a novembre la capacità di produzione rinnovabile del pianeta. Al momento del passaggio del secolo avevamo esaurito le scorte già a settembre. Adesso siamo alla fine di luglio. Del resto altri numeri confermano la tendenza. All’inizio del Novecento l’umanità consumava 6 miliardi di tonnellate di materiali (comprendendo minerali, biomasse e combustibili fossili). Nel 1970 si era arrivati a 27 miliardi di tonnellate. Oggi abbiamo superato i 100 miliardi. Continuando così a metà secolo saremo a 180 miliardi di tonnellate. La massa dei materiali artificiali, quelli che mettiamo in movimento noi, ha già superato la biomassa: gli umani pesano più della natura. Non è un primato che fa piacere, piuttosto un’obesità che preoccupa.

Anche perché un problema tende ad aggravarne un altro. Ad esempio il fatto che da tempo emettiamo più anidride carbonica in atmosfera di quella che gli oceani e le foreste sono in grado di assorbire accelera lo squilibrio climatico che contribuisce a ridurre le risorse disponibili perché aumenta la desertificazione e l’inaridimento delle terre. Ma questa situazione non è irreversibile. Abbiamo un sistema di conoscenze che ci consente di inquadrare il problema. Abbiamo tecnologie che ci danno la possibilità di riorganizzare la nostra vita mantenendo i vantaggi accumulati nei secoli di abuso della natura e ampliandoli. Abbiamo l’opportunità di passare da un’economia lineare che tratta la Terra come un usa e getta a un’economia circolare basata su energia e risorse rinnovabili. Se smettessimo di premiare con centinaia di miliardi di euro di sussidi annuali pubblici le attività più inquinanti potremmo anche farcela.