Che tempi bizzarri sono mai questi? In fondo, ha senso domandarselo se, alla fine della fiera, si vuole restare umani. Si prenda il caso della politica. Per la maggioranza dei partiti presenti in Parlamento siamo al finale di stagione di una fase vissuta pericolosamente. È successo al centrodestra, come al centrosinistra. Nessuna eccezione. Men che mai per l’ibrido Cinque stelle, dove la narrazione del movimento granitico, della falange compatta come un sol uomo, si è rivelata una suggestione da pièce teatrale, più adatta a tradurre un modello mitico-letterario che a incarnare il reale. Il “drama”.

Primo quadro: Beppe Grillo, padre-padrone del Cinque stelle, investe Giuseppe Conte della missione, che fu di Mosè nel Vecchio Testamento, di condurre il popolo eletto (grillino) alla Terra promessa della prossima legislatura. “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio”, si sarà detto Grillo scimmiottando il profeta Isaia (42, 1-4).

Secondo quadro: Giuseppe Conte, investito del carisma dell’unto del Signore, sceglie di non arrampicarsi sul Monte Sinai per ricevere dall’alto dei cieli pentastellati i comandamenti per gli uomini e le donne (grillini), ma di scrivere lui la sua “Legge”.

Terzo quadro: il padre-padrone prende visione dell’opera “dell’Elevato” e si accorge che l’azzimato leguleio della provincia foggiana è un diavolo che si palesa nelle mentite spoglie di cherubino. Il nuovo Statuto del Movimento è concepito per fare fuori il vecchio giullare e per strappargli dalle mani il bastone del comando. Caino non avrebbe saputo fare meglio. Stizzito, padron Grillo parla al suo popolo e manda a ramengo l’unto del Signore. L’unto si offende e minaccia: o si fa come dico io o vi pianto in asso nel bel mezzo del deserto (della politica).

Quarto quadro: il popolo (grillino) che bivacca nelle istituzioni è terrorizzato. Teme l’ira del “Supremo” Beppe, ma questa volta non ci sta a distruggere il Vitello d’oro di Aronne e opta per il male minore: spedisce un Vaffa! al Guru. Destino dei superbi: chi di spada ferisce, di spada perisce.

Quinto quadro: il Guru, dall’argentea criniera di un Riccardo cuor di leone, la prende in saccoccia e si arrende al colpo di mano che il suo ex-prescelto, oggi “Peppino l’usurpatore” novello Giovanni senza terra al secolo Giuseppe Conte, gli ha combinato sotto il naso. Eppure, Giulio Cesare, Decimo Bruto, le idi di marzo e il “Tu quoque” avrebbero dovuto insegnare qualcosa.

Sesto quadro: il sipario si alza sul web, dove un popolo osannante e “decasaleggizzato”, ancorché dimezzato rispetto alla platea dei tempi belli della Piattaforma Rousseau (Aventi diritto al voto: 113.894 – partecipanti al voto: 60.940) decide per schiacciata di tasto di darsi la nuova legge preparandosi, come fiore pudico de Le mille e una notte, a concedersi al nuovo padrone. Un 12,64 per cento di contrari salva la faccia all’evento, che a chiamarlo “momento democratico” ci vuole fantasia. È dai tempi del referendum pilatesco: “Gesù o Barabba?”, che si sa come vadano certe cose e come i meccanismi della comunicazione incatenino la libertà. Conte esulta, ma non si capisce per cosa.

Per il “biscotto” ai danni di Beppe Grillo, organizzato a tavolino con Luigi Di Maio, azionista di maggioranza della premiata ditta Cinque stelle? Se non è teatro ma vita vera, domandiamoci a cosa risponda tutto questo: alla cronaca o alla storia? Qual è la differenza? Per Benedetto Croce, la storia è la storia viva e la cronaca la storia morta. Parlando dei Cinque stelle, mai definizione fu più appropriata. Narrare le vicende del più grande partito presente in Parlamento è descrivere cosa morta, che non è calarsi nell’eterno presente spinoziano ma rendere un’elencazione minuziosa di avvenimenti inerenti a una vicenda della politica che, crocianamente, non è più pensata, ma solamente ricordata nelle astratte parole, che erano un tempo concrete e la esprimevano.

Ecco perché ciò che farà, o non farà, Giuseppe Conte nei prossimi giorni e nelle prossime settimane non avrà vibrante rilievo nella pubblica opinione. Possono consumare i gomiti a tirare a lucido le cinque stelle incastonate nel marchio, la realtà non cambia: il grillismo è storia morta. Anche se d’ora in avanti quel popolo non si chiamerà più grillino ma “contiano”, la musica non cambia. Con buona pace del saggio Benedetto Croce, questa volta la forma non è sostanza. Potremmo infischiarcene di cosa combini no i rivoluzionari della scatoletta di tonno, resi domestici dal sant’uomo di Volturara Appula, ma non possiamo perché – sono le regole del gioco democratico – i loro voti in Parlamento contano e soprattutto pesano quando si tratta di fare scelte sbagliate per gli italiani. Qui sta il punto!

Le istituzioni pubbliche oggi sono scollate dal Paese reale. C’è al potere una classe dirigente che nella componente ex-grillina, non rappresenta più quella maggioranza di elettori che nel 2018 volle credere ai loro programmi e alle loro facce pulite. Non è questione etica, ma politica. Può una nazione, in una temperie storica in rapida evoluzione, consentirsi di essere ostaggio di una forza partitica scarsamente rappresentativa della volontà popolare? Non ci riferiamo ai sondaggi, che pure la danno in caduta libera nei consensi. Stiamo agli esiti di tutte le tornate elettorali susseguitesi dal 2018. La novità che ci ha consegnato il Governo prima della pausa estiva è la data delle elezioni amministrative che avrebbero dovuto tenersi la scorsa primavera ma che sono state rinviate causa Covid.

Si voterà domenica 3 e lunedì 4 ottobre, cioè tra meno di due mesi. Saranno 12 milioni gli italiani che andranno alle urne nei 1.162 comuni interessati dai rinnovi delle amministrazioni locali, tra cui 18 capoluoghi di provincia e 9 Amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni di tipo mafioso. Voteranno i cittadini delle metropoli, da Napoli a Milano, passando per Roma, Bologna, Torino. Alcune di queste città sono state amministrate da sindaci e giunte pentastellate. Non si dica che trattasi di test periferici, ininfluenti rispetto al quadro politico nazionale. Occorrerà osservare il dato di consenso del Movimento cinque stelle. Se, come tutto lascia presagire, le percentuali ottenute da Conte e compagni dovessero risultare risibili, sarà pur lecito interrogarsi sull’opportunità di tenere in vita la legislatura fino alla scadenza naturale del 2023?

Dallo scorso 3 agosto è scattato il semestre bianco, il periodo nel quale la Costituzione inibisce al presidente della Repubblica, prossimo al termine del mandato, il potere di sciogliere le Camere. Norma obsoleta che, tuttavia, presenta un piccolo vantaggio: giacché “semestre” dura solo 6 mesi. Eletto il nuovo capo dello Stato all’inizio del prossimo anno, non v’è ragione plausibile, che non siano i calcoli di bottega dei singoli partiti, che gli possa impedire di mandare gli elettori alle urne, allo scopo di riportare a maggiore aderenza la rappresentanza parlamentare con l’orientamento generale del Paese.

Preveniamo l’obiezione dei contrari all’interruzione anticipata della legislatura: i “contiani” non sono più un pericolo perché accettano di votare qualsiasi cosa pur di sopravvivere nelle istituzioni per un altro anno. Vero. Ma il fatto è che la loro influenza non la si può ritenere neutralizzata. Grazie alle virate a sinistra, di Grillo prima e di Conte dopo, il Cinque stelle si è trasformato in corpo contundente nelle mani del Partito democratico che lo usa come arma impropria contro la destra per arginarne l’ascesa al potere. È sostenibile reggere il Governo della nazione per altri due anni sul presupposto di un imbroglio e di una paura? Ci sarà poco tempo per metabolizzare l’esito del voto d’autunno che si arriverà al punto di snodo della legislatura: l’elezione del capo dello Stato. C’è da scommettere che il Partito democratico, trascinando con sé il Cinque stelle, farà carte false per spuntarla sul rinnovo dell’attuale inquilino del Quirinale.

Sergio Mattarella al secondo mandato garantirebbe ai suoi antichi sodali del centrosinistra di evitare le urne delle politiche nel 2022 e, soprattutto, sarebbe l’ultima linea di difesa dei progressisti per impedire la formazione di un Governo di legislatura dichiaratamente liberal-conservatore. Giuseppe Conte e i suoi ne guadagnerebbero in allungamento della vita (politica) di un altro anno. E l’Italia? Cosa ne guadagnerebbe il Paese tenuto sotto ricatto da una forza partitica che non esiste più, o quasi, nella coscienza politica degli italiani? Noi ce lo chiediamo. Ma se lo domandano con il medesimo grado di preoccupazione i leader dell’odierno centrodestra?

CRISTOFARO SOLA